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Andar per campi ed evitare di "rimanerci": breve guida alle piante velenose (e mortali) di Sicilia

Dalla famosa Mandragora alla Belladonna, vediamo alcune tra quelle più "interessanti" della nostra regione e che hanno in molti casi prodotto una miriade di credenze popolari

  • 19 gennaio 2022

Quando si parla di verdure selvatiche commestibili, come per i funghi, oltre a riconoscere le specie da raccogliere, di cui ci siamo occupati di recente, bisogna allargare le proprie conoscenze anche alle piante simili con cui si possono scambiare. A volte si rischia di rovinare il sapore di una pietanza raccogliendo specie non commestibili, ma nei casi più gravi si può incorrere in piante velenose anche mortali, un errore che non ci si può permettere.

Vediamo alcune tra quelle più interessanti, sotto vari punti di vista, che si trovano nella nostra regione. Non bisogna dimenticare che le piante officinali e velenose hanno prodotto nella cultura popolare una miriade di leggende e credenze che aggiungono fascino all’argomento.

La famiglia botanica con il più alto numero di specie tossiche è sicuramente quella delle solanacee, che comprende anche specie commestibili ampiamente coltivate come pomodori, peperoni, melenzane e patate. Tra le solanacee che vegetano spontaneamente anche in Sicilia alcune contengono alcaloidi, cioè sostanze organiche a base di azoto, tossiche o allucinogene per l’uomo.
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La più nota è la Mandragora autunnale, che cresce in prossimità delle coste e nei terreni incolti. Germoglia tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, ha i fiori campanulati che sbocciano al centro con intorno le foglie, lisce e appressate al terreno, non ha fusto. È quella che purtroppo più frequentemente causa intossicazioni tra i raccoglitori di verdure poco attenti, che la scambiano con la borragine. Può causare tra gli altri, problemi cardiaci, allucinazioni e persino la morte, se consumata in quantità eccessive. Alla mandragora sono legate numerose leggende alimentate anche dalla forma delle radici che ricordano le sembianze umane con tanto di braccia e gambe.

Dalla fantasia popolare era vista come un essere mostruoso a metà tra un uomo e un vegetale che emetteva un suono come di pianto quando la si strappava dal terreno e causava la morte di chi la raccoglieva. Usata nei riti di stregoneria per la preparazione di pozioni magiche, la si riteneva afrodisiaca e capace di combattere la sterilità. Per quest’ultima credenza ha dato il titolo alla nota commedia di Machiavelli in cui il protagonista, desideroso di avere un figlio con l’aiuto della mandragora, verrà beffato dall’amante della moglie.

Un’altra solanacea tossica, che cresce spontanea in Sicilia, è la Morella o Pomo di Sodoma, un arbusto originario del Sud Africa, naturalizzato in tutta l’area mediterranea. Cresce in prossimità del mare, sulla sabbia, nei terreni incolti ed ai bordi delle strade. I suoi rami sono spinosissimi, i fiori simili a quelli della melenzana, i frutti sono delle bacche dal colore prima giallo poi bruno. Il nome la lega al noto episodio biblico di Sodoma e Gomorra, la morella sarebbe rimasta l’unica pianta in grado di crescere dopo l’incendio che distrusse la città.

Conosciuta sin dall’antichità, della stessa famiglia delle precedenti, è l’Atropa belladonna, un piccolo arbusto con fiorellini violacei che spuntano in primavera. Le bacche nere vengono erroneamente scambiate con i mirtilli ma sono velenose. Come spesso accade per le piante tossiche, i principi attivi, nel giusto dosaggio e sotto controllo medico, possono anche avere proprietà medicamentose. Quello di questa solanacea è l’atropina, usato come tranquillante e antispastico per il suo effetto paralizzante sulle terminazioni nervose, ed in oculistica per dilatare temporaneamente le pupille. A questa proprietà è legato il nome di belladonna, perché nel medioevo le dame la usavano per dilatarsi le pupille a scopo puramente
estetico.

A ricordare l’elevata tossicità, Atropo nella mitologia è il nome di una delle tre Parche, quella che recideva il filo della vita. Tra gli arbusti sempreverdi a bacche rosse, belle, ma velenose mortali, c’è l’Agrifoglio, riconoscibile per le foglie verde-lucido, pungenti e dentellate. Cresce spontaneo nei boschi di montagna ed è anche coltivato, sulle Madonie se ne trovano esemplari centenari dalle dimensioni ragguardevoli, in particolare a piano Pomo. Il principio attivo contenuto è l’ilicina, irritante per il sistema gastrointestinale. Anche questa essenza ha avuto in passato un notevole successo come fitoterapica, soprattutto come lassativo.

È la pianta decorativa per eccellenza. Nelle varie tradizioni, da quella celtica a quella romana, l’agrifoglio era ritenuto capace di tenere lontani gli spiriti maligni e proteggere la casa, per questo motivo veniva regalato e appeso in segno di buon augurio. Nella tradizione cristiana è associato al Natale. I cultori del genere fantasy lo ricordano nella saga di Harry Potter.

Una pianta davvero comune nei pascoli, che tutti i raccoglitori di finocchio selvatico sanno di non dover confondere, è il finocchiaccio, cioè la Ferula comune. Sono due specie della stessa famiglia botanica, simili nelle foglie e nell’infiorescenza a ombrella. Il finocchietto, ingrediente fondamentale della pasta con le sarde, e con i semi dalle proprietà digestive, si riconosce fondamentalmente dall’odore tipico, la ferula è inodore, è più alta, può raggiungere anche i tre metri, e le sue ombrelle sono più sferiche. Il suo fusto eretto, cilindrico, resistente ma leggero, in un passato recente trovava numerosi impieghi artigianali, dallarealizzazione di sgabelli alle arnie, in dialetto i “fasceddi”.

A differenza del finocchietto, la ferula è velenosa, causa emorragie negli animali al pascolo che se ne cibano per errore. Nonostante la tossicità, dai suoi fiori le api ricavano un ottimo miele e sulle radici nascono i funghi cardoncelli, conosciuti con i nomi dialettali di “fungi di ferula” o di “pani cauru”. Ha un posto importante nella mitologia classica, è al suo interno che Prometeo avrebbe nascosto il fuoco rubato agli dei.

Da questa breve carrellata, sicuramente non esaustiva dell’argomento, si evince che anche una piacevole attività all’aria aperta come raccogliere verdure o frutti selvatici può nascondere delle insidie. Prova ne sono i casi di intossicazione che si leggono, per fortuna di rado, nelle pagine di cronaca. L’unico vero antidoto contro ogni pericolo è la conoscenza e speriamo, con questo articolo, di avere dato anche noi un piccolo contributo.
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