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La Madonna delle peccatrici e le donne impudiche del Vicerè

  • 5 marzo 2007

“Madre dei peccatori e delle... peccatrici prega per noi”. Testualmente sta inciso così su una modesta lapide apposta in tempi recenti alla facciata della chiesa di Santa Caterina, in via Garibaldi a Palermo. Sotto la piccola statua della Madre di Dio che nel quartiere conoscono come la madonnina delle peccatrici. In qualche modo celeste patrona delle ragazze di colore ora costrette ad esercitare il più antico mestiere del mondo e a dare pubblico scandalo – come scrive qualcuno - tra la vicina via Fiume e le adiacenze della scomparsa Porta di Termini. Un segno dei tempi che cambiano ma che testimonia del perdurare del problema che da sempre ha costituito in città la massiccia presenza di prostitute. Malcapitate che oltre a gestire tristissimi casi personali dovettero fare i conti con le autorità che nei tempi e nei modi più diversi hanno finora cercato se non di risolvere quanto meno di arginare il fenomeno. Non solo a partire dal tragico 1575, anno in cui, come scrisse il diarista Filippo Paruta, la peste bubbonica che portò alla tomba diverse migliaia di palermitani cominciò a diffondersi proprio nel cosiddetto Burdellu di Sant’Andria. La Storyville locale che si estendeva nelle viuzze circostanti la chiesa di San Domenico e che dava fastidio ai frati dell’annesso convento. Problema serio anche per la pubblica incolumità come annotò il cronista: “A 9 giugno fu scandalo della peste in questa città per aver morto quella donna che a San Domenico ebbe pratica col capitano del bergantino (nave proveniente da Sciacca già covo della pestilenza e attraccata per qualche giorno a Palermo, ndr). Ed ancora morse l’innamorato di detta donna e tutti di casa di una febbre con certi vozzi all’incinagli, l’uno imbiscandola all’altra”.

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Rudimentale italiano, però efficace nel rappresentare l’inizio di quella sventurata emergenza che per giunta costò la vita anche a centinaia di cani, sterminati quali portatori più o meno sani del “pestifero morbo”. Per la cronaca, nella Palermo da sempre classista si salvarono solo i cani da caccia e quelli di razza, semplicemente obbligati a restare alla catena. E se poi l’epidemia cessò, anche e ovviamente per l’intervento dei vari Santi patroni della città, la pubblica prostituzione continuò ad essere un problema che non fu risolto nemmeno dai vicerè d’ogni provenienza che in proposito non lesinarono i bandi. Storicamente anche curiosi come quello emesso nel dicembre del 1761 dal vicerè Eustachio duca di Vieifuille che con tale provvedimento ritenne anche di poter proteggere “la salute della gioventù cui attentava il troppo avanzato numero di donne impudiche, causa di disordini e pubblici scandali”. Perciò si stabilì, tra l’altro, che tali femmine non avrebbero potuto sostare oltre “l’ora una di notte” sui gradini delle chiese dove fingevano di chiedere l’elemosina. E questo in tutti quartieri più popolari, sia fuori le porte della Marina e della Cala sia nei mercati oggi storici, cioè nelle Boccerie della foglia e della carne, alla Fieravecchia e a Ballarò. Mentre per simili meretrici di basso rango le pene erano proprio severe dato che prevedevano pubbliche frustate e luride prigioni per la durata di un anno. Punizioni che equitariamente venivano estese anche a quanti erano sorpresi a patteggiare con loro. Ma pene ovviamente non usuali per le ricche cortigiane che, al massimo, rischiavano di essere forzosamente sfrattate dai lussuosi boudoir impiantati accanto alle abitazioni dei palermitani onesti e agiati, scannaliati e turbati più o meno come i casti fraticelli del convento di San Domenico.

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