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La notte delle “ipotesi concrete”

Incontro con i due fotografi palermitani Alessandro Di Giugno e Stefania Romano

  • 7 giugno 2007

“Coppia in amore e nel lavoro”, come essi stessi amano definirsi, i fotografi Alessandro Di Giugno (Palermo, 1977) e Stefania Romano (Palermo, 1975), espongono per la prima volta insieme, in una doppia personale dal titolo “22:15/00:30” visitabile fino al 23 giugno presso la galleria Zelle Arte Contemporanea (via Matteo Bonello 19; lunedì-sabato, ore 17-20), che racconta cinque anni della loro produzione e raccoglie immagini che hanno come denominatore comune la notte. La stessa Nyx (Notte) che il curatore della mostra, Federico Lupo, chiama in causa come madre primordiale, generatrice di numerose divinità protagoniste della cruenta e violenta lotta descritta nella Teogonia esiodea. Ma la Notte è in particolare colei che porta in grembo desideri e future manifestazioni che solo nel giorno troveranno compimento, e quando Di Giugno e Romano raccontano come l’orario 22:30/00:30 sia per loro l’unico momento del giorno in cui si ritrovano a fotografare, per abitudine e perché - aggiunge Stefania - «la notte per me è perfetta, sono molto timida!», sembra allora evidente come insieme intonino un inno alla madre primordiale perché esaudisca i loro desideri. Sogni che l’artista costruisce nelle sue immagini facendo uso di travestimenti e di un set fotografico curato fin nel minimo dettaglio, che esprimono una riflessione acuta sulla realtà nonostante quella immagine surreale e onirica che suggeriscono, che vogliono essere «una valvola di sfogo un luogo sicuro in cui lo spettatore può rifugiarsi» lontano dalla realtà quotidiana. Benché le opere di Stefania siano la trasposizione di sogni ad occhi aperti (o chiusi), favole per adulti animate da strani personaggi con attributi (e titoli) enigmatici in atmosfere nebulose, esse non sono altro che «rielaborazioni della realtà, di quello che vedo, che sento, che mi accade».

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Brandelli di realtà, «ipotesi che diventano concrete, perché realmente lei ci crede», ci suggerisce Di Giugno, che parlando di se stesso dice invece «io parto dal concreto per realizzare delle ipotesi di ritratto, mi piace giocare sul paradosso del reale, come se sull’immagine di ognuno avessi la possibilità di costruire altri cento ritratti, registrando così l’aspetto mutevole del quotidiano». Nel confronto tra volti ed espressione eterogenee, nella registrazione di atteggiamenti umani con l’uso di oscurità accecanti e luci negate, si coglie il suo bisogno inevitabile di essere testimone di un contemporaneo così veloce e mutevole, di forzare la realtà immaginando l’essere umano come «un attore sul palcoscenico». Alessandro con il suo occhio fotografico sembra voler costruire un’antologia per immagini di tipi umani, il suo lavoro potrebbe essere definito una via di mezzo tra la volontà documentaristica dimostrata da Sander nel catalogare la razza ariana e i ritratti psicologici di Dijkstra, con un pizzico di curiosità per tutto ciò che è fuori dagli schemi comuni e che in ciò ricorda la Arbus. Il ricorso al flou, il travestimento e la fedeltà alchemica alla tecnica fotografica tradizionale fanno di Stefania una nuova Cameron, che però con il suo mondo mitobiografico venato di melanconia non può non richiamare alla mente le delicate immagini di Carroll.

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