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Un nome degno di una favola: è il Bosco di Baulì, paradiso incontaminato degli Iblei

Un angolo di Sicilia che racchiude segreti. Vi portiamo alla scoperta di un luogo quasi del tutto dimenticato già nelle più lontane epoche e poi riscoperto negli ultimi secoli

  • 17 aprile 2021

Il Bosco di Baulì

Un paradiso incontaminato nel cuore degli Iblei, un luogo quasi del tutto dimenticato già nelle più lontane epoche e poi riscoperto negli ultimi secoli.

Questo angolo di Sicilia racchiude segreti nascosti dall’impenetrabile vegetazione del suo bosco, ci troviamo in provincia di Siracusa nel territorio di Palazzolo Acreide e il meraviglioso luogo in questione è la cava di Baulì.

Il toponimo Baulì o Bauly, è quasi certamente di origine araba e secondo alcuni studiosi sembra risalire alle parole “Abu-Alì” ossia, “Padre di Alì”, probabilmente in riferimento a qualche abitante o proprietario della zona, di appartenenza araba.

Certo è che in alcuni documenti risalenti al periodo arabo, il sito veniva chiamato “Rahalbalata” che significa “casale rupestre”.

Plasmata nel corso dei secoli dall’erosione dell’acqua e dalle mani dell’uomo, questa cava di origine miocenica risalente a 15 – 20 milioni di anni fa, conserva degli importanti quanto sconosciuti tesori archeologici, naturalistici ed etnoantropologici.
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Inoltre, sia a causa dell’inaccessibilità che per essere stata il rifugio di briganti, l’area è argomento di numerose leggende locali che fanno riferimento a tesori nascosti e spesso anche protetti da incantesimi e magie. Qui emergono tracce che attraversano tutte le fasi dell’età del bronzo fino all’arrivo dei greci, per poi proseguire nell’alto medioevo ed in particolare durante la dominazione bizantina; è proprio in questo periodo che la cava e il pianoro soprastante si popolano.

L’abbandono del vicino centro urbano di Akrai (l’antica Palazzolo) favorisce una capillare antropizzazione delle contrade verso est ed in particolare lungo la direttrice stradale Akrai – Noto Antica.

All’epoca in cui i bizantini erano i dominatori della Sicilia, era usanza piuttosto comune scavare abitazioni all’interno di cave inaccessibili, soprattutto nell’ultimo periodo quando i saraceni iniziarono i loro attacchi. Nell’827 d.C. gli arabi misero a ferro e fuoco la vicina Akrai devastando le campagne circostanti e quindi anche la contrada di Baulì.

Il fenomeno rupestre è un aspetto tipico del territorio ibleo in quanto la struttura geomorfologia delle sue rocce lo permetteva, l’intero altipiano è ricoperto di tenera roccia calcarea che l’uomo ha imparato a scavare fin dall’antichità, quando ne ricavava necropoli come Pantalica, Cava Grande, Castelluccio.

La roccia, scavata a tappeto per scopi funerari, assume l’aspetto di un enorme groviera, tanto da far affiorare nell’immaginario della gente il parallelismo con gli alveari, visto che l’altipiano è fra i più rinomati centri di produzione di miele fin dall’antichità, come testimoniano gli scritti di Virgilio, Ovidio e Teocrito.

L’espediente di rifugiarsi nelle cave si diffuse su tutto l’altopiano, e ogni grande o piccola cava fu presto popolata, tanto che oggi è cosa comune rinvenire complessi abitativi rupestri, che in alcuni casi sono da considerarsi dei veri e propri villaggi. La tradizione locale ci tramanda il termine ddieri per definire questi particolari insediamenti, il nome sembra derivare dal toponimo arabo diyâr, che significa “abitazione”.

Tesi avvalorata anche dal fatto che i templi scavati nella roccia presenti nella città di Petra, in Giordania, vengono indicati col termine el ddier. I ddieri di Baulì sono un grosso agglomerato rupestre scavato interamente nella roccia costituito da tre nuclei: il ddieri grande, il ddieri piccolo e il ddieri o’ rimitu (dell’eremita).

I ddieri sono soprattutto “fortezze nella roccia”, essi infatti si presentano come strutture ben munite, spesso con un’unica via d’accesso e al primo piano vi si accedeva per mezzo di una scala in legno, che ritirata dall’alto poteva permettere la chiusura con una botola, isolando così tutto il ddieri.

Costituivano una vera e propria fortezza: situati in zone aspre e su più piani, ricavati nelle pareti verticali della roccia e protetti da fittissima vegetazione nonché da punti di discontinuità fra i differenti ambienti, testimoniano l’assillo della difesa che attanagliava il popolo costruttore costretto a fuggire dalla costa.

Risalenti all’epoca bizantina, al IV-V secolo d.C. secondo Paolo Orsi e Gaetano Curcio, furono realizzati per accogliere gruppi numerosi di abitanti, probabilmente comunità religiose: quello grande poteva contenere fino a circa 50 persone, inoltre la struttura del primo ambiente è quella tipica delle chiese rupestri bizantine.

Definire abitazioni rupestri queste perle di ingegneria articolate e complesse sembra alquanto riduttivo, i primi due complessi abitativi, il “ddieri grande”, il “ddieri piccolo”, sono scavati nella tenera parete di roccia calcarea rivolta a Nord-Est, mentre il “ddieri dell’eremita” - quasi a sottolineare il nome - si trova in posizione isolata nella parete opposta e rivolta a Sud-Ovest.

In ogni ddieri c’è un posto chiamato il “romitorio”, un luogo di preghiera costituito da una balconata sul dirupo, gli anacoreti una volta la settimana accoglievano le persone e vi parlavano, non erano immuni a questa pratica neanche i re, lo stesso Costante II prima di approdare in Sicilia parlò con due eremiti considerati santi, quindi messaggeri divini.

Abbandonati progressivamente fra il XVII e il XVIII secolo, questi villaggi rupestri, sparsi qua e là sui monti Iblei, tornano ad essere abitati da folte schiere di briganti. Come per la maggior parte dell’isola, nel periodo successivo all’unità d’Italia, i banditi ne fecero la propria base operativa, sfruttando l’estrema inaccessibilità di questi luoghi. In uno dei corridoi dei ddieri si trova una scritta antica, che riporta la data del 1688, mentre poco più avanti figurano date più recenti relative al periodo del secondo conflitto bellico.

A quanto pare la storia si ripete: i ddieri che protessero i bizantini dall’invasione saracena più di 1300 anni fa, offrirono la stessa difesa ai rifugiati della grande guerra.

Insieme all’aspetto archeologico, rappresentato dalle abitazioni bizantine scavate nella roccia, è interessante l’osservazione degli aspetti naturalistici che questo territorio racchiude in se, particolarmente all’interno del bosco di Baulì che bisogna attraversare per giungere fino ai ddieri.

L’area costituisce un S.I.C. – sito di importanza comunitaria – e permette di avere una visione di come fosse la copertura boschiva in Sicilia fino a qualche secolo fa, grazie al fatto di aver mantenuto la caratteristica di boscosità che poi è mancata nel resto dell’altopiano ibleo, interamente ricoperto da querce ed in particolare di lecci, specie predominante nei boschi siculi.

Si tratta di una lecceta governata fino ai primi del secolo scorso con un tipo di taglio denominato ceduo, mentre ai margini venivano lasciati i ceppi per la produzione delle ghiande, da cui il nome di ceppaia.

Il riferimento alle querce e ai lecci è rimasto nei modi di dire tipici della civiltà contadina, in termini dialettali una persona ambigua veniva indicata con il detto “nun si né ilici né ceccia” indicando che non era né leccio (sempreverde) né quercia (caducifoglie), come dire che non era né carne né pesce.

È presente anche l’alloro o lauro, molto caro ai romani che così chiamarono il picco più alto dell’altopiano (Monte Lauro) per la grande abbondanza di questa pianta. Per chi ama la natura, l’avventura e la riscoperta di un luogo dimenticato e scarsamente frequentato, i ddieri di Baulì sono assolutamente una meta obbligatoria per la straordinaria bellezza data dal connubio fra vegetazione incontaminata e storia antica.

Come arrivare: raggiungere il bosco di Baulì è semplicissimo, venendo da Siracusa, a pochi chilometri da Palazzolo Acreide, lungo la strada statale 287, si trova una comoda traversa asfaltata che indica la località.

Da qui basta seguire le indicazioni per circa 2 km per raggiungere uno dei numerosi accessi al bosco.
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