AMAZING (DIS)GRACE

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La stanza a casa dei genitori: quel posto fermo nel tempo tra oggetti e ricordi

Fumetti, peluche, chitarre: li ritroviamo in occasione di vacanze e weekend a casa di mamma e papà e anche se non fanno parte della vita di oggi fanno parte di noi

  • 1 febbraio 2018

La vita da emigrata non si riassume nel peso di quel pacco che arriva da giù con il corriere mentre sei a lavoro. Non si riassumere nei vestiti che pieghi e metti nell’armadio della tua casa in affitto, mentre pensi al gesto di tua madre che dall’armadio “di giù” li ha presi per riporli in quella scatola di cartone.

No. La vita da emigrata si disperde nel peso di tutte quelle piccole cose che non potrai portare su. Perché superflue, perché inutili, perché oggetti di per se insignificanti. Ma racchiudono ricordi. Racchiudono – per me – tutti e 29 i miei anni. Come Rossetto, il mio pupazzo di infanzia.

Un piccolo peluche fucsia che non ho mai capito se gli adulti chiamassero Rossetto o Orsetto. Nell’incertezza, con la vanità di una bambina che rubava i rossetti ormai consumati dal contenitore dei trucchi della madre, optai per il Rossetto. Oppure il porta gioie dai colori pastello, gialli e verdi come chiazze di acquarelli di un pittore post impressionista.
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Tre cassetti, uno specchio. Lo scelsi con mio padre accanto dopo avere superato non so quale lunga febbre e non ricordo quante "punture" di cosa. «Se volete farmi la puntura – dicevo – dovete darmi cinquemila lire. Per ogni puntura, si intende». E se si pensa che quel ciclo di punture durò 15 giorni, alla fine avevo raggiunto una somma niente male per una bimba di otto anni.

«E ora mi compro un regalo». Dopo tutte quelle lacrime versate a pancia in giù e – ammettiamolo – anche qualche vomito per la paura e il terrore dell’ago, un regalo me lo auto meritavo. Oppure ancora, quello schiacciapensieri appeso al lampadario. Il ricordo di una delle tante feste patronali in cui ero riuscita a essere presente per 29 anni consecutivi.

E poi c’è la tazza di Praga, il mio primo viaggio all’estero – e vidi chi priu quella piazza dell’Orologio che sembra la riproduzione in miniatura (e anche la brutta copia) dell’orologio di Messina. E minchialufriddudipraga. Però quella tazza con una Praga dal cielo rosa confetto mi ricorda i 18 anni appena compiuti, quella stanza fetida dell’hotel in cui dormivo con compagne di classe alcune perse, alcune con me da quando avevo 6 anni (vero, Cì?).

E poi c’è quel flauto indiano da 2 euro trovato in un bazar di Palermo. E di certo anche dentro un post sulla mia stanzetta – bazar siciliana doveva esserci Palermo.

O quell’improbabile cappello di paglia acquistato durante una rappresentazione delle opere classiche al teatro di Siracusa e che mi fece guadagnare le attenzioni di un giovane marines americano che mi raccontava di essere lì perché le opere sono famose in tutto il mondo.

Non poteva perderle! Ma non sapeva una parola dell’italiano, a parte "sei bella", quindi mi chiedo cosa abbia compreso di Medea.
Però le ricordo ancora le risate del gruppo con cui ero lì, seduta sui sedili in pietra del teatro. Li ricordo ancora, i miei compagni di teatro, a prendermi per il culo perché lui parlava in inglese e io sapevo solo rispondere, con una forzata gentilezza, "yes, of course".

Ah, in quella mia cameretta diventata in 29 anni un bazar ci sono anche i numeri migliori di Dylan Dog. Sono in piedi, uno accanto all’altro, su una mensola in legno blu che mia madre fece appendere per disperazione. “Hai troppi libri nella libreria” mi disse un giorno. «Ma la libreria ha solo due scaffali» ribattei io. E allora eccomi una nuova mensola. Dopo mezz’ora era già piena.

«E ora dove li metto gli altri Dylan Dog?», chiesi. Per disperazione mia madre acquistò una libreria da dieci scaffali che ancora oggi le ripeto essere non sufficientemente capiente. E la libreria da due scaffali – per la cronaca – ha le parti centrali delle tavole sempre più inclinate. Prima o poi il legno cederà, lo so. Le tavole si spezzeranno e cadranno giù tutti i libri.

Giù, sulla cassapanca posizionata sotto la libreria e che è ricoperta da un’altra fila di libri. Ma anche da due bottiglie di vodka e da una di vino. L’ultima è un regalo per i miei trent’anni. Forse un messaggio gentile per dirmi di smettere di bere lo schifo. L’altra è una bottiglia vuota di vodka alla fragola, reduce da non so quale festa universitaria a casa Corriere.

L’altra ancora è di un improbabile gusto al melone bianco. La conservo ancora sigillata. Regalo di un altro compleanno. Ok l’amore per la Russia, ma forse è meglio che resti chiusa. Il perchè si perde nei vicoli di Ballarò.

E rieccola Palermo. Perché da Palermo vengono anche i tanti pass per festival, manifestazioni e convegni per cui ero riuscita a lavorare o a cui ero andata (come quello di Perugia, o quello di Marsala). Festival del giornalismo, in gran parte.

Il giornalismo: qualcosa che mi sono lasciata alle spalle e di cui in quella stanza ci sono mille tracce. Tra le bozze dei numeri del periodico che per un po’ di tempo ho gestito, nelle foto di presentazioni di libri in cui ero invitata come giornalista. Nelle agende dalle copertine nere in cui prendevo appunti. Un’altra vita.

Un altro mondo che non posso mettere in una scatola. E, di fondo, anche non voglio. Perchè, se anche potessi, non metterei nulla di quegli oggetti in una scatola. Provate voi a strapiantare un albero qualsiasi e a metterlo in un terreno che non è il suo. Un albero a cui tenete, a cui tenete davvero.

Che succede a quell’albero? Ecco, io non ce lo vedo Rossetto sul letto della mia abitazione (non casa) di Milano. Non ce la vedo quella bottiglia di vodka al melone nella mia cucina di Milano. Non ce lo vedo quel cappello di paglia poggiato sul comodino a 300 metri dal Naviglio.

No. Non ce li vedo.
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