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A Termini c'è una "sala" che racconta secoli di storia: gli affreschi di La Barbera, artista dimenticato

Tra i più interessanti artisti dell'ultima fase del manierismo in Sicilia era devoto a Santa Rosalia. A lei dedicò una tela che rappresenta una delle prime riproduzioni della Patrona di Palermo

Roberto Tedesco
Architetto, giornalista e altro
  • 23 marzo 2021

Gli affreschi della sala La Barbera del Palazzo di Città di Termini Imerese (Palermo)

Tra le opere d'arte di pregio che la città di Termini Imerese custodisce non c'è dubbio che la Sala La Barbera, un tempo destinata ad aula consiliare e oggi utilizzata come luogo di rappresentanza istituzionale, sia sicuramente tra le più interessanti.

Sita all'interno del palazzo di Città, di Piazza Duomo, venne affrescata nel 1610 dall'architetto e pittore termitano Vincenzo La Barbera che in un cartiglio si firma con la dicitura: Vincentinus Barbera in. P. Ter.

Il La Barbera è tra i più interessanti artisti dell'ultima fase del manierismo in Sicilia, e nel periodo della sua maturità artistica realizzò una tela dedicata a Santa Rosalia che intercede per Palermo, proprio nell'anno in cui la città venne travolta dal morbo della peste (1624). Tutt'oggi quest'opera è conservata al Museo Diocesano ed è considerata tra le prime riproduzioni della Patrona.

Nei quattro frontoni della sala, del palazzo del Magistero di Termini Imerese, è possibile apprezzare un ciclo di affreschi, che riferiscono della storia di Imera e di Thermae Himerenses, il cui soffitto a cassettoni sarebbe stato montato qualche decennio dopo.
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L'opera pittorica è particolarmente importante, sia per il tema profano illustrato, non certo molto diffuso a quel tempo considerato che il principale committente era la Chiesa, sia per la grande espressività pittorica che l'artista è capace di trasferire attraverso il colore, il tocco del pennello, la prospettiva e il "racconto" dei fatti narrati, tutti riscontrabili nelle testimonianze antiche e compresi tra il VII secolo a.C. e il II secolo d.C.

Le Storie d'imprese della Sala sono in tutto dodici e ogni due vengono intervallati da rappresentazioni di illustri personaggi, ognuno dei quali viene riporta una didascalia in latino suggerita dall'erudito magister humanitatis, Giovanni Leonardo Faraone da Benevento (maestro di umanità e suggeritore) anche lui a libro paga della committenza, così come riferito dagli studiosi locali Antonio Contino e Salvatore Mantia, nel loro libro dal titolo: "Vincenzo La Barbera, architetto e pittore termitano" ed edito nel 1998.

Questi dipinti rappresentano un'occasione per ripercorrere la storia della Città che affonda le origini nel mito della dea della Athena. La stessa che ordinò alle ninfe, secondo quanto asserito da Diodoro Siculo, di far sgorgare delle acque calde per ritemperare l'eroe Eracle impegnato, proprio in questa terra, in una delle sue fatiche.

Tutti i riquadri pittorici rappresentano una attenta ricostruzione storica, che attraverso le fonti come quelle di Pindaro, Diodoro Siculo, Aristotele, Platone, Orazio e tanti altri, mettono in risalto le virtù dei protagonisti che vissero in questo territorio.

Ecco emergere, con forza e determinazione, il poeta arcaico Stesicoro e i suoi fratelli: Mamertino e Lionato, il primo un matematico il secondo un giurista. Gli atleti Crisone ed Ergotele, divenuti famosi perché vincitori dei principali agoni della madrepatria. A quest'ultimo, il più grande poeta greco antico Pindaro, dedicò una Olimpica: la dodicesima.

E ancora come non evidenziare la determinazione nell'affermare la libertà del nobile romano termitano Stenio, che si oppose ai soprusi di Verre mettendo a rischio la propria vita. Entrando nella sala, proprio di fronte all'ingresso, notiamo sulla sinistra una Rappresentazione teatrale dove la didascalia ci rimanda ai cori stesicorei, sulla destra: Eracle tra le ninfe.

La presenza dell'eroe nelle terre di Imera è da riferirsi al suo viaggio (nella Sicilia settentrionale) di ritorno da una delle sue fatiche, quando s’impadronì della manda del gigante tricefalo Gerione.

Le testimonianze letterarie confermano che fra i primi a introdurre il mito di Eracle, almeno nell’isola, fu proprio il poeta imerese con la sua Geroneide. I successivi sei riquadri, partendo da destra, rievocano le vicende storiche della vicina colonia greca di Imera. In ordine si notano, La fondazione di Imera, risalente al 648 a.C. ad opera di un nucleo misto di calcidesi, zanklesi e dori, secondo quanto riferisce Tucidide.

Poi in successione cronologica troviamo: Tisia da bambino, un una serie di imbarcazioni in viaggio verso Corinto e un tempio circolare eretto in onore allo stesso poeta. Questa sezione è prevalentemente dedicata a Stesicoro che, secondo i compilatori del Lessico di Suda, era un poeta lirico che per primo istituì un coro per canto citarodo. Successivamente in epoca bizantina, il poeta venne considerato tra i poeti corali, al pari di: Pindaro, Bacchillide, Saffo, ecc.

La peculiare rilevanza che egli ebbe fu proprio quella di essere tra i primi sostenitori della tradizione dei miti e per aver portato rinnovamenti di ordine metrico con l’utilizzo della ripartizione triadica. L'ultimo pannello dedicato alla colona greca riguarda la distruzione di Imera, del 409 a.C. ad opera dei Cartaginesi.

Purtroppo quella circostanza fu la fine della splendida città e nonostante Eschilo la definì con l’epiteto poetico dagli alti dirupi e quindi sicura e invalicabile, non venne mai più abitata da quel momento in poi. In quella circostanza, secondo quando sostenuto da Cicerone, Imera venne incendiata, depredata e privata delle preziose statue che adornavano i templi dell’area del temenos e dell’agorà.

Il ciclo narrativo viene interrotto dallo stemma della città, posto al di sopra della porta d'ingresso della sala, dove viene rappresentato il monte San Calogero (Eurako per i romani) sulla cui sommità si nota San Calogero, primo patrono della città. Alle falde dell'altura si riconoscono due figure. A sinistra una fanciulla con cornucopia secondo alcuni si tratta di una ninfa secondo altri della dea Cerere.

A tal proposito l'arciprete, protonotaro apostolico e commissario ordinario del Santo Uffizio, Vincenzo Solito nell’opera, data alle stampe nel 1669, forse post mortem, dal titolo: Termini Himerese posta in teatro, così scriveva a proposito del simbolo civico: “(…) la donna con le spighe in mano, è la Dea Cerere tanto dell’antichi Termitani adorata, e celebrata e per esser, la detta Città, ornata del Caricatore di frumento (…).”

A destra dello stemma è facilmente individuabile un anziano ricurvo con un libro in mano, si tratta di Stesicoro. A tal proposito ciò che viene riportato da Cicerone, San Girolamo, e Luciano di Samosata, confermerebbero della longevità del poeta. Proprio quest'ultimo, in Macrobii, attesta che visse otre ottantacinque anni.

Se nei primi pannelli la storia ruota intorno alla figura di Stesicoro, il ciclo successivo il protagonista indiscusso fu il nobile termitano Stenio. Il primo affresco è quello di Scipione Emiliano che restituisce alla nascente città di Termini alcune statue trafugate dai cartaginesi a Imera.

Il ciclo narrativo prosegue con il generale Pompeo che viene fermato da Stenio all'ingresso della città delle terme, ancora quest’ultimo nell’atto di opporsi alla rapacità di Verre, Stenio accusato dal governatore e infine lo stesso termitano quando venne difeso da Cicerone.

Stenio venne ingiustamente accusato di falso in atto pubblico, con l'obbligo di versare a Venere Ericina 500.000 sesterzi. Per questo reato egli subì un illegittimo processo, e sebbene la somma di denaro fu versata Verre, bramoso di una rivalsa ancora più esemplare, cospirò facendo in modo che un falso testimone, di nome Marcus Pacilius, denunciasse Stenio di delitto capitale.

Ma per fortuna, grazie all’appoggio del Generale Pompeo, negli anni divenuto suo amico, ma soprattutto alla difesa del grande oratore Marco Tullio Cicerone, il termitano, venne scagionato dall’infamante accusa dinanzi al senato romano.

Oltre a Cicerone nelle Verrine, un'altra fonte antica che riferisce di Stenio è nelle Vite parallele: Agesilao e Pompeo di Plutarco, a proposito della famosa rivolta civile dell’82 a.C. tra gli optimates, guidati da Lucio Cornelio Silla, e i populares seguaci di Gaio Mario. Le rappresentazioni pittoriche del cassettone ligneo del tetto sono di particolarmente interessanti e in parte anche enigmatiche.

Si tratta di nove tele dipinte ad olio, di cui quella centrale è di forma ottagonale. In quest'ultima è rappresentato lo stemma araldico del monarca Filippo III di Spagna. In tutte le altre notiamo sempre una rispondenza tra la parola e le immagini e decorati da cartigli contenti dei motti in latino.
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