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I sogni nel progetto dell’autostrada tra Sant’Erasmo e Acqua dei Corsari

  • 24 luglio 2006

Se nella scorsa “storia” scrivemmo delle cose buone che a Palermo non durano, è in verità ancora più facile citare certe iniziative i cui risultati non durarono solo perché furono “realizzati” unicamente sulla carta. Su quella dei giornali o sull’altra usata da architetti, ingegneri, urbanisti, botanici, paesaggisti e tecnici esperti d’ogni argomento concernente se non la bellezza almeno il decoro cittadino.

Significativo in tal senso fu il progetto per il recupero della costa, violentata tra Sant’Erasmo e Acqua dei Corsari. Ci riferiamo al Piano che pervenne al Comune nel 1983 e che si seppe frutto del lavoro di ben ottanta professionisti che immaginarono e crearono di tutto, ma virtualmente, su quei famigerati sei chilometri di lungomare. Che oggi non è nemmeno definibile tale perché sul lato est di via Messina Marine il mare è ora quasi interamente nascosto da nuove costruzioni quasi tutte – o tutte ? – abusive e poi avventurosamente “sanate”. Mentre per il patrimonio edilizio d’epoca, sul lato opposto, laddove non sono sorti i grattacieli finiscono di degradarsi gli esemplari ottocenteschi più rappresentativi.

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Ma per tornare a quel Progetto va detto che nel 1983 il Comune ne approvò una parte. Ovviamente quella relativa alla costa che inizia a Sant’Erasmo e prosegue subito dopo con la foce fangosa e fetida ancora oggi dell’Oreto. Si seppe che una certa ditta avrebbe utilizzato allo scopo i primi venti miliardi di vecchie lire. Quanto al resto di ciò che da quelle parti i palermitani non hanno perduto per il semplice fatto che non fu mai realizzato diciamo subito che era anche prevista la trasformazione della discarica della Bandita in un parco marino con piante, fontane e statue. Queste ultime in ferro, in legno, in plastica, magari fatte con i metalli recuperati. Tutte opere d’autore, però, comprese quelle in pvc.

Mentre la stessa via Messina Marine doveva essere affiancata in parallelo da due splendidi viali per i quali erano stati addirittura scelti i nomi. Uno doveva essere il “Viale delle Quattro Stagioni”, l’altro, più concretamente, il Viale degli Stand, con tutto ciò che poteva importare un tale nome nell’ambito del terziario. Premesso poi che per realizzare tanto progetto doveva pur decollare il risanamento biologico di un mare che oggi resta tra i più inquinati del Mediterraneo, vogliamo aggiungere pure che chi adesso abbia la possibilità di consultare cinque o sei degli ottanta specialisti di cui sopra potrà anche venire a sapere che su quella autostrada “dei sogni nel progetto” erano previsti il ritorno di moderne “cammarelle” per stabilimenti balneari, come quelli di Petrucci e di Virzì e, perché no, gli impianti di Romagnolo dell’ottocentesca “za Sciaveria”.

Oltre a campi sportivi e ristoranti che avrebbero dovuto rinverdire i fasti di “Spanò” e quelli di “Renato” dove si favoleggiava che per ospiti proprio illustri erano previste posate d’oro. E infine che cosa non avevano progettato i botanici. Colonnati di palme semplici o doppi, alla Palm Springs, con canali d’acqua fatti emergere con tecniche arabe per annaffiare una serie di “siti suggestivi” nei quali dall’erba dovevano levarsi le cultivar delle più belle essenze mediterranee.

Dal biblico melograno del Cantico di Salomone ad ogni sorta di agrumi, in un tripudio di colori offerti dalle lantane, da centinaia di piante grasse, da piante subtropicali e da bougainville d’ogni colore. Oltre che da carrubi, olivi, querce e ancora da palme d’ogni genere, dall’umile “scupazzu” alle maestose Phoenix del dattileto che dalle odierne parti di Corso dei Mille fu raso al suolo dai primi invasori del secondo millennio.

Mentre divertimento e pace sarebbero stati assicurati da giardini intrisi di riferimenti storici dentro i quali era previsto l’alternarsi di lunapark, labirinti, ponticelli sui laghetti, canali d’acqua, teatri all’aperto e perfino impensabili “luoghi ombrosi di meditazione”. Non ricordiamo più che cosa si intendesse fare dei mostruosi promontori creati dai camionisti che per decenni preferirono la costa alla montagna di Bellolampo. Ora sappiamo che quei “mammelloni”, così li chiamano gli ecologisti, stanno ancora là. Irti di spuntoni di ferro e minacciosamente luccicanti di vetro mentre le loro parti spianate dalle ruspe sono costellate di siringhe da insulina.

Che se non sono indice di una pandemia di diabete, non rassicurano certo sul numero delle vittime degli infami traffici che nei primi anni ottanta facevano capo alle “raffinerie” individuate proprio su quel tratto di costa da coraggiosi investigatori. Servitori dello Stato niente affatto garantiti dal medesimo e che perciò pagarono con la vita l’ostinata dedizione alle istituzioni. Ma di questo, con rabbia e dolore e senza ironia fuori luogo, è proprio il caso di scrivere un’altra volta.

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