LE STORIE DI IERI

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L'"onurevuli d’u pitittu", tribuno dei poveri

  • 26 novembre 2006

Salvatore Raia, capopopolo della Vucciria e difensore degli ultimi della terra, all’Ente Comunale di Assistenza lo irridevano chiamandolo “l’onurevuli d’u pitittu”. Ma lui non se ne curava e ai commessi dell’Eca che lo conoscevano benissimo continuò sempre ad esibire il biglietto da visita che lo qualificava presidente del Gruppo Indigenti e Disoccupati di Palermo. Con parecchie ragioni, dato che nel centro storico assurdamente diventato periferia, Salvatore Raia, fino alla morte avvenuta nel freddissimo febbraio del 1985, fu il protettore dei vecchi, dei senza tetto storici, degli sfrattati costretti a vivere nei cunicoli scavati nelle viscere dei palazzi fatiscenti e con il cielo inutilmente azzurro che traluceva dai tetti sfondati.

Lui non sapeva leggere né scrivere. Però imparava in fretta tutto quello che gli leggeva il suo segretario nella sede dell’associazione, in via Coltellieri, alla Vucciria. E quando usciva da quel “basso” e si recava a difendere nelle sedi appropriate i suoi assistiti, Raia usava linguaggio e termini tecnicamente precisi per chiedere il rispetto d’ogni genere di diritti negati. Mentre le due stanze di pian terreno nelle quali egli restava tutto il giorno – se non doveva andare a protestare dovunque si mancasse di rispetto ai suoi soci – erano infine diventate anche la sua vera casa. Da anni, da quando cioè il Comune lo aveva sfrattato dal palazzo pericolante che lo accoglieva con l’anziana moglie ed entrambi erano stati trasferiti in una stanza di pensione in via Calascibetta.

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L’altro recapito dove potevano andarlo a trovare anche di notte quelli cui lui aveva rilasciato le tessere che recavano il primo comma dell’articolo 4 della Costituzione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”. La stessa norma alla quale nel ’56 si appellò Danilo Dolci, quando di peso lo trascinarono all’Ucciardone insieme ai suoi “banditi di Partinico”, i senza lavoro che con lui stavano riparando gratuitamente un’infine famigerata trazzera.

Instancabilmente attivo e sempre con un diritto negato da far rispettare, Salvatore Raia prendeva particolarmente di mira i responsabili dei refettori che restavano chiusi nelle festività e ai suoi vecchi sdentati servivano roba immangiabile per più ragioni. Scatolette di cibo e frutta “eccessivamente matura” che egli riponeva in un sacchetto di plastica e portava nelle redazioni per mostrarne il contenuto ai giornalisti amici. E c’è ancora chi non lo dimentica a bordo di una lapa traballante con la quale portava i pasti caldi a chi non aveva più la forza di recarsi alle mense comunali.

Poi, i giornali scrissero della volta in cui Raia radunò la sua gente per portarla in treno a Roma. Per farsi ricevere dal Papa o, almeno, da Sandro Pertini. Una spedizione che non andò più avanti di Termini Imerese dove il tribuno della Vucciria fu fatto scendere con tutti i compagni di viaggio e “rimpatriato”, con foglio di via obbligatorio, nella città natia. Dove si era ammalato dell’enfisema che lo avrebbe stroncato a 62 anni. Solo qualche giorno dopo l’ultima protesta effettuata nel salotto buono della città, in via Ruggiero Settimo, tra l’indifferenza della gente e buscandosi l’ira degli automobilisti cui quell’ultimo corteo di disoccupati aveva impedito di circolare. Forse l’unica volta che non ebbe più nemmeno la forza di agitare il bastone contro gli agenti che con gentile fermezza lo bloccarono poco prima di piazza Castelnuovo.

Quando lo ricoverarono in ospedale, la malattia lungamente trascurata impedì a Raia di alzare la voce per difendere i compagni di corsia che con antica rassegnazione attendevano rispetto e cure. Ma il destino, cinico e baro quella volta anche nei confronti di chi non lo rispettava, alla sua morte riservò una sorpresa assai apprezzata da quanti invece gli volevano bene. Dall’obitorio dell’ultimo ospedale, il carro dell’Opera Santa che trasportava i resti di Salvatore Raia prese la strada che conduce a Santa Maria del Gesù. Al cimitero dei ricchi e dei patrizi palermitani accanto ai quali, del tutto inopinatamente, lo struggente “tribuno” poté infine riposare in pace.

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