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Buono, terapeutico e meglio del filo spinato: 'u ficurigna meriterebbe un monumento

Questa è la storia di un'importazione riuscita. Il fico d'India è certamente la pianta grassa più riconosciuta e gettonata della Sicilia, nonché della città di Palermo

Antonino Prestigiacomo
Appassionato di storia, arte e folklore di Palermo
  • 13 gennaio 2022

Fico d'India in Sicilia (foto di A. Prestigiacomo)

Ne "La Flora sicula ovvero manuale delle piante che vegetano nella Sicilia" quando si parla del fico d'India si dice che «Fu così chiamata questa pianta da Opunzio città dei Locresi, dove a dir di Plinio, nasceva una pianta simile a questa». Il manuale sebbene indichi un'antica origine greca, attesta laprovenienza di questa pianta dalle Indie occidentali, cioè dall'America Centrale e Meridionale.

L'Opuntia ficus-indica, il fico d'India, o più nostranamente 'u ficudinnia e corrottamente 'u ficurigna che dir si voglia, è certamente la pianta grassa più riconosciuta e gettonata della Sicilia, nonché della città di Palermo. I palermitani nutrono un vero e proprio affetto per questa pianta e lei nel corso dei secoli si è guadagnata un posto assoluto tra le tipicità locali.

Si crede originaria del Messico. Fu importata intorno al 1500 dai conquistadores spagnoli e subito dopo subspontaneizzata in tutto il Mediterraneo. Solitamentenon supera i 2 - 4 metri di altezza, presenta rami (detti meglio pale) oblunghi, carnosi e spinosi «concatenati a zigzag». Sulla loro sommità «tra aprile e luglio si sviluppano numerosi grandi fiori che constano di sepali squamiformi, di petali obovati di colore giallo-solfino e di numerosissimi stami». Nei mesi successivi nascono i frutti di dimensioni non superiori ai 9 centimetri, hanno una forma ovoide e sono colorati di giallo, rosso e viola.
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Giuseppe Pitré nella sua Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane ci racconta una leggenda raccolta per lo più nella Sicilia Orientale: «Originariamente il ficodindia era velenoso e fu importato in Sicilia dai Turchi, per distruggere con esso i popoli cristiani; ma fosse miracolo, fosse benefica diversità di clima, trapiantato nell'Isola vi si acclimò felicemente e cominciò a dar frutti sani e dolci».

Gaetano Basile invece ci parla della leggenda del fico d'India “scuzzulatu”, originatosi a causa di una lite tra contadini confinanti: «Per danneggiare il vicino un contadino recise i fiori sulle piante pensando così di fermare i frutti.

Invece la fruttificazione fu solo ritardata e con le prime piogge vennero fuori frutti più grossi e succosi». In una specie particolare di fico d'India detto “cactus cochinillifer” alberga il “Cocus caeti”, la cui larva la conosciamo col nome di “cocciniglia”. Da questo verme essiccato e macinato i messicani impararono a trarne una sostanza detta “carminio” usata per la tintura di numerosi prodotti.

Oltre ai succosi frutti che allietano alcuni momenti delle torridi estati, e che in genere vengono meglio gustati se ghiacciati, nell'ambito medico del ficodindia si utilizza il fiore per preparare decotti e pare che sia efficace per curare tumori della milza e febbri malariche; in cucina addirittura i più coraggiosi mangiano le pale fritte a mo' di cotoletta.

Ultimamente oltre alla classica marmellata ricavata dai frutti e alla preparazione di un gustoso liquore, sta nascendo perfino la moda del paté di fico d'India tratto dalle pale: io l'ho assaggiato, obbiettivamente non è per tutti i palati.

La coltivazione del fico d'India in Sicilia è sempre stata importante, non solo per il ricavo economico, in verità non molto elevato, ma anche perché le filare di piante ammassate costituivano, specie nei terreni, limiti invalicabili, siepi impenetrabili che delimitavano le proprietà.

La coltivazione era davvero intensa in Sicilia, tanto che sempre il Pitré raccogliendo una diceria antica, ci lascia immaginare che gli abitanti di Capaci, comune in provincia di Palermo, pregassero affinché i frutti dei fichi d'india, che dalle loro parti erano tantissimi, si trasformassero in olive per avere tanto olio da ricavarne un grosso profitto: «Vuolsi che i capacioti preghino il lor protettore S. Erasmo che converta i loro fichi d'India in tant'olio acciò essi ne traggano larghi guadagni».

Come saprete, ormai questa pianta grassa è un simbolo della nostra terra, lo sanno bene gli artisti che la riproducono costantemente e in maniera sempre originale utilizzando i materiali più impensabili e spesso di riciclo: dalla classica ceramica, al legno di mare, alla stoffa, al vetro ecc. Il fico d'India è dipinto in continuazione e lo si vede anche come logo nelle agenzie di viaggio, tra le decorazioni delle vetrine dei negozi, nelle case come semplice pianta da ornamento. Sembra essere diventato un simbolo di buon auspicio, come la pigna.

Di sicuro in tempi di guerra, i suoi frutti furono di aiuto a moltissimi. Mi raccontava un anziano signore che spesso i fichi d'India rappresentavano l'unico pasto della giornata. Questi frutti hanno salvato tanti dalla fame, chissà che un giorno qualcuno non gli dedichi un monumento pubblico per onorarli: sarebbe un modo diverso di prendersi cura della natura.
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