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Gli antichi "bevai" di campagna: segni (d’acqua) della storia contadina della Sicilia

Queste testimonianze antiche sono via via scomparse, di alcuni abbeveratoi rimane solo qualche traccia, di altri addirittura il ricordo di chi viveva qui

Marco Giammona
Docente, ricercatore e saggista
  • 27 novembre 2022

Un abbeveratoio in Sicilia

Collocati nelle piazze dei centri agricoli, negli spazi rustici propriamente detti o in prossimità di regie trazzere o mulattiere, lungo percorsi strettamente legati alla transumanza e al pascolo, trovano ancora posto antichi e silenziosi "bevai". Simboli dei ritmi dell'antica cultura rurale che forniva acqua potabile a uomini e animali che transitavano dalle campagne, si differenziano delle più nobili ed eleganti fontane monumentali, site per lo più nei grandi centri urbani e fatte costruire da sovrani e da magnati.

La semplicità funzionale e formale di questi manufatti che spesso si trovano immersi nel verde e che rappresentano per gli abitanti del luogo il segno della memoria, ancora oggi sono una testimonianza di come l’uomo nei secoli si sia adoperato per realizzare tutte le strutture necessarie allo sfruttamento della risorsa idrica.

Di solito i bevai anche detti “abbiviraturi” o “beveragli” erano caratterizzati da una o più vasche rettangoli in pietra o in muratura, che venivano realizzati per volere del feudatario in varie dimensioni ed ornati con elementi architettonici, come epigrafi, stemmi e sculture e, non di rado, anche con immagini a carattere sacro riportate sulla fontana stessa o sul muro della nicchia.
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Nelle aperte campagne spesso l'abbeveratoio poggiava su una base di acciottolato per permettere un calpestio più agevole e meno scivoloso agli animali che vi si accostavano. Lo scarico delle acque sporche avveniva lasciando che esse defluissero per immissione diretta in fiumi e ruscelli o per spandimento attraverso canali e saie su terreno naturale o coltivato.

In Sicilia ed in alcune parti della Calabria tali manufatti prendono il nome di “gebbia” che deriva da “djeb”, cioè “vasca per la raccolta delle acque”, avendo quasi sempre il duplice scopo di abbeveratoio per le mandrie e gli animali da soma (soprattutto muli e asini, oppure capre, pecore e buoi) e per gli stessi braccianti che prima di recarsi in campagna riempivano le “lancedde” e i “bummuli” di preziosa acqua.

I mandriani, attendendo l'abbeverata degli armenti, intrecciavano volentieri conversazioni con paesani e forestieri, rinfrancati, soprattutto nelle afose giornate estive, dalla frescura dell'acqua che zampillava nell'abbeveratoio. Si potevano così anche realizzare compravendite di terreni, di merci e di animali.

L'importanza di questi luoghi risiede essenzialmente nel loro significato simbolico e storico essendo dei punti di riferimento del territorio antropizzato. Quasi sempre il loro nome è legato ai toponimi della zona, e spesso sono luoghi di leggende o di immaginario collettivo.

Questi manufatti sono distanti dal centro urbano, se intimamente connessi con la sorgente che li alimenta: in questo caso rappresentano la conclusione del percorso dell'acqua. Nel territorio di Misilmeri, tra paesaggi agresti e selciati ancora battuti, sono presenti alcuni di questi caratteristici abbeveratoi, costruiti tra il XIV e XVI su commissione degli stessi padroni del latifondo da maestranze artigianali, che grazie al lavoro di taglio e levigazione della pietra locale, realizzarono dei veri e propri manufatti di architettura dell’acqua.

Il primo è posto nell’angolo del vallone che divide il feudo di Scalambra da quello di "Catena", lungo l’antica trazzera di Risalaimi che conduce al Ponte della Fabbrica. Il secondo è collocato nella parte alta del feudo di "Catena" nel piano Spinella, sul ciglio della trazzera, nascosto tra alberi di ulivi e ficodindia. Il terzo si trova lungo la trazzera del feudo "Patellaro", a pochi passi da una vecchia masseria abbandonata che richiama alla memoria una vita intensa e operosa di cui non rimane più alcuna traccia visibile.

Il perpetuarsi del disuso causato dalla presenza di acque stagnanti, utilizzate per l'abbeverata, che risultavano facilmente inquinate da germi patogeni e da vari parassiti e dall'avvento dei primi acquedotti, ha fatto sì che molti di questi “bevai” scomparissero, di alcuni ne rimane solo la traccia, di altri addirittura il ricordo.

Testimoni di una civiltà e cultura contadina la cui memoria è ancora viva dei ricordi del passato, queste strutture, che pochissimo hanno ottenuto in termini di studi storiografici e documentari, si sono lastricate di melma e depredate dalle erbacce, ricordando comunque, al di là della loro funzione primaria, un compito ben preciso nell'ambito della cultura contadina nelle zone rurali, laddove la simbiosi uomo natura-acqua-elementi architettonici è ancora simbolicamente viva e continua a narrare la loro ricca e preziosa storia, ma soprattutto funzione, in un surreale silenzio scandito dal suono dell’acqua.
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