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L’Accademia di Palermo e l'amore per il pugilato: il Maestro Pandolfini allenò anche Carnera

La sua storia è la storia di tutta la città e dell’intera Isola dagli anni Venti alla fine degli anni Ottanta. Antonio Pandolfini nacque nel 1906, nel quartiere dell’Albergheria

Era il 2 marzo del 1996. Avevo compiuto diciotto anni e, nonostante il grave lutto che ci aveva appena colpiti, i miei, in accordo a mia nonna Lidia che mi amava follemente, non vollero annullare la festa in mio onore che avevano organizzato al TeLiMar di Mondello.

Non siamo soci di questo circolo ma del Lauria, che, al contrario dell’estraneo TeLiMar, mi appare sempre quale santuario delle gesta veliche di mio nonno e dell’infanzia, dell’odore del legno delle barche arroventato dal sole e del “Fior di fragola” che gocciola in spiaggia sulla pelle accaldata.

Mio nonno, Gaspare Sarulli, fu tra quei soci fondatori del Lauria – insieme a Ignazio Florio Junior, il primo presidente, e l’avvocato Francesco Mangione – che, durante la Guerra, caricarono barche e canoe sulle proprie spalle e le trasportarono dall’originaria sede alla Cala (un brigantino disarmato) all’attuale fabbricato nel molo di Punta Celesi di Mondello.

Ma toriamo alla festa. Quella sera la ricordo benissimo. Due giorni prima, il 29 febbraio, morì il mio prozio, Antonio Pandolfini, il Maestro Pandolfini. Sua sorella, mia nonna Lidia, presenziò lo stesso alla festa: aveva gli occhi lucidi, lo ricordo benissimo, gonfi di quel pianto che lascia il segno per tanto tempo, ma mi adorava talmente tanto che era per lei impensabile non esserci. Aveva amato infinitamente suo fratello Antonio.
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Tutti i fratelli e le sorelle lo avevano sempre amato, sostenuto e incoraggiato, nonostante le resistenze della loro rigida madre Maria Concetta. Figlia di Antonio Noto Galati, regio notaio che, durante la Belle Époque, firmò quasi tutti gli atti di costruzione dei villini del palermitano viale della Libertà, nonna Mamà – come l’ha sempre chiamata mia madre Fiammetta – è sempre stata una donna inflessibile nell’educazione come nei princìpi, tanto da essere soprannominata in casa “la Generalessa”.

Non accettò mai di buon grado che suo figlio Antonio avesse sposato una ballerina, considerata un’indecente “donnaccia dello spettacolo”, e che, peggio ancora, avesse deciso di dedicare la sua vita all’atletica e al pugilato. Eppure Antonio sposò la sua amata Clara Zamboni, aprì la sua palestra e in breve, a soli ventuno anni, divenne, per più di mezzo secolo, il punto di riferimento indiscusso della migliore società (e non solo) di Palermo, nonché il grande pioniere dello sport di tutta la Sicilia.

La sua storia è la storia di tutta la città e dell’intera Isola dagli anni Venti alla fine degli anni Ottanta. Antonio Pandolfini nacque Palermo nel 1906, nel quartiere dell’Albergheria. Secondo di sette figli (tra cui la piccola Beatrice, morta prematuramente), organizzava, appena ventisettenne, incontri di pugilato e di gran livello, dalle piattaforme a mare di Mondello al Politeama di Palermo.

Il padre, Angelo, nonostante le reticenze della Generalessa, gli aprì la prima palestra in piazza Origlione, in pieno centro storico a Palermo: Antonio la chiamò subito “Kiss”, in onore del pugile ungherese da cui apprese i primi fondamenti della disciplina.

Allenò negli anni Trenta il pugile Primo Carnera, da poco campione del mondo dei pesi massimi, allo stadio della Favorita appena inaugurato, e fu il primo Personal Trainer dei rampolli dell’epoca. Il suo slogan recitava: “Lezioni private, individuali e collettive di boxe, cultura fisica e difesa personale”.

In breve l’Accademia Pandolfini per l’Educazione e lo Sport divenne un punto di riferimento imprescindibile sia per la cultura del corpo che per la formazione del Gentleman. Nella sua palestra non era ammesso alzare la voce, gridare, discutere o dire parolacce: dovunque cartelli e avvisi recitavano frasi del tipo “Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa” o “La persona civile non sputa e non bestemmia”. L’unica voce che ogni tanto si sentiva era quella della moglie Claretta.

Ballerina veronese nata in America, la zia Clara è rimasta memorabile per il suo carattere burbero e scontroso, ma anche per la sua irreprensibile abilità amministrativa, a cui nulla sfuggiva, né una retta, né un ritardo da parte degli allievi. Antonio aveva invece un carattere opposto, mite, dolce, compassionevole, ma anche serio e professionale durante gli allenamenti.

La conobbe appena ventiduenne al ritorno di un viaggio in treno, si innamorarono a prima vista e non si separarono mai più. Vivevano un amore immenso, fatto di viaggi estivi, complicità, sintonia e dedizione per la loro palestra, a causa della quale si isolavano spesso, anche dai familiari, pure in occasione di feste e celebrazioni come il Natale. La loro palestra non poteva mai esser lasciata sola, c’erano sempre tante cose da fare, dicevano. Era la loro casa, non ebbero neanche figli, i loro figli erano gli allievi del Maestro Pandolfini, come tutti lo chiamavano.

Dalla sua Accademia si distinsero, tra gli altri, Domenico Natalè, olimpionico a Amsterdam nel ’29, Aldo Ferrari, campione italiano dei pesi leggeri nel ’34, e il peso piuma Cocò Costa, campione italiano nel ’32.

Natalè diceva che Antonio sarebbe stato un pugile unico e promettente se quell’incidente avuto al ginocchio a diciotto anni non lo avesse invalidato: egli comunque saliva sul ring, non si arrendeva mai, era un gentiluomo capace di stare con chiunque e trattarlo alla pari, e i suoi allievi erano educati per divenire uomini prima che atleti.

In un articolo pubblicato alla morte di mio zio sul “Giornale di Sicilia”, a firma di Francesco Massaro, il giornalista e scrittore Vincenzo Prestigiacomo ricorda che Antonio era un numero uno nel suo campo, legato in amicizia fraterna al barone Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco che lo seguiva ovunque, e trascorreva tutti i giorni, dalla mattina alla sera, nella sua palestra, formando validi atleti con serietà e soprattutto con grande generosità nei confronti di coloro che non potevano permettersi le sue lezioni.

Nel ’39 la sala “Kiss” venne chiusa perché era diventata troppo stretta di fronte alla cospicua richiesta di iscrizioni. Ci si trasferì allora in via Principe di Villafranca, e dopo la parentesi della Guerra, si riaprì nell’agosto del ’45 con uno strabiliante successo che lo consacrò a fondamento della cultura sportiva in Sicilia.

In seguito venne inaugurata l’ultima sede dell’attività in via Enrico Albanese, con il sostegno di un valido allievo, il Professore Ignazio Bivona, che ne ha raccolto l’eredità non solo didattica ma in parte anche strumentale. Il Maestro Bivona lo ha affiancato fino alla chiusura dell’Accademia nel 1989 e subito dopo, in suo onore, ha avviato l’Associazione sportiva L’Accademia, tutt’oggi attiva in via Giachery 4, una traversa di via dei Cantieri a Palermo: qui si conservano e si usano ancora gli attrezzi di un tempo, sopravvissuti alle tristi beghe ereditarie della nostra famiglia, qualche vecchio peso, una cavallina, le pertiche, le corde per saltare e i birilli in vecchio legno tarlato.

Con Bivona e Prestigiacomo ho in programma di pubblicare a breve, per la Ex Libris di Palermo, un volume inedito che raccoglie testimonianze e fotografie sul Maestro Pandolfini, compresi i suggestivi autoritratti che i suoi allievi gli donavano, tutti documenti che rappresentano un prezioso spaccato della città e della Sicilia di quegli anni.

Anche mia madre Fiammetta, in memoria dello zio Antonio, ha intitolato la sua azienda con il nome di Accademia Immobiliare.

Quando Antonio chiude l’Accademia Pandolfini, la sua vita s’ingrigisce, egli non tollera la monotonia della vita da pensionato, la sedentarietà, invecchia, si ammala, perde in parte la vista e la capacità di deambulare e parlare, si strappa le flebo insofferente alle cure e si lascia morire, a novant’anni, dinanzi all’amata moglie che ben comprende il suo dolore.

Siamo tutti in Chiesa a celebrare la sua morte e quella di Claretta, avvenuta dopo qualche ora, la ballerina che l’ha amato tutta la vita, che gli è stata sempre accanto e che non l’ha lasciato andar via neanche alla fine.

La mia ultima immagine è quella di due bare vicine davanti l’altare, benedette dall’incenso, il cui odore, solo per qualche attimo, ha osato avere la meglio sul profumo gentile delle rose bianche.
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