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La vita (segreta) di Luigi Pirandello: quando rischiò di perdere il padre per mano mafiosa

Si tratta certamente di un fattaccio che Stefano Pirandello raccontò al figlio e che evidentemente è rimasto a lungo nella memoria dello scrittore siciliano

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 20 maggio 2023

Luigi Pirandello

Il premio Nobel Luigi Pirandello ha rischiato di diventare orfano di padre quando era ancora in fasce.

Lo sostiene lo stesso drammaturgo agrigentino in una intervista al giornalista e amico Federico Vittore Nardelli, che possiamo leggere nella biografia autorizzata di Pirandello, pubblicata con il titolo “Vita segreta di Pirandello”.

Lo conferma una sentenza del Tribunale di Girgenti che abbiamo trovato all’Archivio di Stato di Agrigento; infine rintracciamo il nome di chi attentò alla vita del padre di Pirandello tra le righe di una novella pirandelliana.

Vittoria Nardelli riporta con dovizia di particolari l’episodio che avrebbe potuto sconvolgere la vita di Pirandello e della sua famiglia.

Si tratta certamente di un fattaccio che Stefano Pirandello raccontò al figlio dettagliatamente e che evidentemente è rimasto a lungo nella memoria dello scrittore siciliano e gli ha suscitato anche un qualche desiderio inconscio di vendetta, come annoteremo più avanti.
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Riportiamo innanzitutto il testo di Vittorio Nardelli:

"Nel 1867, l’anno che Luigi nacque, don Stefano aveva preso in affitto una zolfatara detta la Petrusa e aveva avuto la ventura di trovarvi una vena straricca di minerale.

Risaputasi la cosa, un tal Cola Camizzi, capo e terrore della mafia di Girgenti, esperto nel tenersi o bene o male frammezzo ai proprietari delle cave ed ai magazzinieri che taglieggiava, s’accostò a Stefano in un luogo solitario (voleva cercargli denaro) e attaccò discorso con una uscita volgare. Fece, alla brava: Caro Pirandello, per aver fortuna colle zolfare ci vuol...

E così dicendo si toccò il posteriore. Ma il bel garibaldino, a una cotal sgraziata presa di contatto, reagì senza preamboli. E menò al Cola uno schiaffo che lo fece girare su di se stesso.

Questi rimase stordito, dalla sorpresa forse anche più che dal colpo. E fra sé, forse per convincersi della realtà di quanto insolitamente gli accadeva, badava a dire: A Cola Camizzi una timpulata (manata). - Non una, ma cento - ribatte Stefano e nei fatti gli sbatte le mani in testa tanto e tanto che lo lasciò per terra colla faccia gonfia.

Poi se ne andò a badare ai propri affari. Entrò in un deposito di zolfo sulla spiaggia. Il deposito era costituito da cataste che facevano una chiusa intorno allo spiazzo libero ch’è detto bagliu dove son le stadere pel peso.

Là il combattivo s’incontrò e s’intrattenne con un depositario, tal Veronica. E ambedue passeggiando trattavano il prezzo dello zolfo abbassato (messo in deposito), quando udirono spari fuor della chiusa II Veronica s’incuriosì. Stefano mangiò la foglia ma si tacque. Un inserviente uscito all’aperto in ricognizione tornò dicendo:

— E' Cola Camizzi che prova lo schioppo

Pensarono che s’apparecchiasse per la caccia. In silenzio tuttavia e senza ch’altri se n’avvedesse Stefano Pirandello tolse dalla cintura la rivoltella e se la mise nella tasca esterna della giacca. Seguitò intanto a passeggiare col Veronica non ammettendo forse per dispregio l’immediatezza del pericolo.

Ma d’improvviso, procedendo i due affiancati nella chiusa, udiron gridare:

— Largo! largo! — E non ebbero tempo di voltarsi che videro la carabina puntata. Il Cola, riparato dalle cataste, s’era avvicinato tanto che ora teneva il suo nemico a tiro. Il Veronica si scansò dal compagno. Che nell’impossibilità d’impugnar arme fece in tempo a guardar la bocca della canna: e come vide il fuoco scattò voltandosi di lato e si riparò il cuore con il braccio.

Di fatto incassò due colpi. Raccontano che intanto gridasse:

— Spara, carogna!

Da una palla ebbe intaccato l’osso e i tendini tanto che gli rimase offeso un dito della mano. L’altra palla, trapassato il bicipite, gli entrò nel petto e andò a spiaccicarsi contro una costola.

Stefano cadde sulle ginocchia. E il Cola, gittato il fucile, veniva innanzi colla rivoltella per finirlo. Se non che l’inserviente prima andato in ricognizione, lo stesso ch’aveva creduto i colpi esser prove, raccolse lo schioppo in terra e manovrandolo come una clava lo dette in testa al Camizzi.

Questi allora barcollando fuggì: e il ferito per venti passi gli tenne dietro spaiandogli a vuoto i sei colpi della rivoltella, prima di svenire pel sangue perduto. Le genti del luogo recarono quindi don Stefano a casa; alla moglie. In sulle prime i medici volevano amputare il braccio; invece poi cambiarono idea. Ma a donna Caterina, ch’allattava, per lo spavento il latte si fece acqua.

E così accadde che Luigi, nato senza levatrice, avesse pure il disguido di perdere la mammella materna. Fu dato a balia.

Il Cola ebbe sett'anni di carcere. Quando uscì fu spedito fuor di Girgenti perché Stefano aveva giurato d’ucciderlo. Il Cola andò a chiudersi nelle zolfare lontane di un tal Di Giovanni e nell’oscurità vi si spense”. (Federico Vittore Nardelli, Vita segreta di Pirandello, Roma, Vito Bianco editore, 1962, pagg. 106-108 – ristampa della stessa biografia, pubblicata nel 1932 da Mondadori ma con il titolo “L'uomo segreto: vita e croci di Luigi Pirandello”).

Riportiamo adesso la Sentenza del tribunale di Girgenti che stabilì la condanna di Nicolò Camizzi ad anni cinque di detenzione.

In nome di Sua maestà Vittorio Emanuele II grazie Dio per la volontà della nazione Re di Italia La corte d’assise del circondario di Girgenti sentenza nella causa del pubblico ministero contro Nicolò Camizzi del fu Domenico, d’anni 50, nato in Prizzi, domiciliato in Girgenti, magazziniere accusato di omicidio volontario mancato in persona di Stefano Pirandello, avvenuto a 6 gennaio 1868, in Porto Empedocle udita la lettura della sentenza di rinvio e dell’atto di accusa, intesi gli esami del dibattimento, che ebbero luogo pubblicamente all’udienza, sentiti il ministero pubblico, la difesa dell’accusato tanto nel merito dell’accusa, che sull’applicazione della pena, avendo la difesa dell’accusato avuto sempre per ultimi la parola.

Attesocchè dalla dichiarazione dei giurati risulta che l’accusato Camizzi Nicolò è colpevole di omicidio tentato commesso il 6 gennaio 1868 in persona di Stefano Pirandello però nell’impeto dell’ira in seguito a provocazione per lo schiaffo ricevuto, e con circostanze attenuanti.

Attesocchè, preliminarmente ad ogni altro esame ha … il verdetto ritenuto che lo schiaffo produsse la provocazione legale, la corte ritiene che un tal fatto costitutivo di una provocazione grave.

Attesocchè il reato in parola è punito colla relegazione estendibile ad anni dieci, potendosi anche commutare nel carcere.

Attesocchè da quella pena devesi dipendere di un grado per le ammesse circostanze attenuanti,

Attesocchè il condannato deve altresì dichiararsi legalmente interdetto

Attesocchè il condannato e altresì responsabile del danno verso la parte civile, da liquidarsi innanzi chi di ragione, ed alle spese del procedimento in pro dello erario dello Stato

Attesocchè devono essere confiscati gli oggetti formanti corpo di reato

visti gli articoli 534 modificato dal decreto del luogotenente generale delle province napolitane dell’11 febbraio 1861, …

Condanna

Camizzi Nicolò, del fu Domenico, da Prizzi, domiciliato in Girgenti, magazziniere, alla pena di anni cinque di relegazione - lo condanna altresì al ristoro del danno verso la parte civile da liquidarsi innanzi chi di legge, ed alle spese del giudizio in favore dell’erario dello Stato. Dichiara infine confiscati gli oggetti formanti corpi di reato.

fatto e deciso in Girgenti a primo maggio milleottocentosessantanove

seguono le firme del presidente e dei componenti la Corte".


Rispetto al ricordo di Pirandello quindi c’è solo da notare che la pena inflitta a Camizzi non fu di sette anni ma di cinque.

Infine, oltre che sulle carte di un tribunale, il nome del mafioso di Prizzi, Nicolò Camizzi, conosciuto con il diminutivo Cola, compare anche nella storia della letteratura italiana per mano dello stesso Luigi Pirandello, che volle usarlo molto probabilmente per sublimare un desiderio di vendetta.

Pirandello lo rende protagonista di un efferato assassinio.

Cola Camizzi compare nella novella pirandelliana “L’altro Figlio”. Alla fine del testo veniamo trasportato nella Sicilia post risorgimentale dove continuavano a imperversare bande di sanguinari briganti.

La protagonista della novella, Mariagrazia racconta che in seguito alla venuta di Garibaldi in Sicilia era stato messo in libertà un terribile brigante di nome Cola Camizzi, il quale aveva reclutato con la forza tra i suoi scagnozzi il proprio marito, Nino.

Il giovane dopo esser riuscito a fuggire una prima volta, era tornato dalla sua Mariagrazia, ma poi venne rintracciato e nuovamente catturato da Cola che per punirlo lo aveva decapitato assieme ad altri fuggitivi.

Quando Maragrazia era andata al covo di Cola Camizzi per chiedere notizie di suo marito Nino, aveva visto i briganti giocare a bocce con le teste delle loro vittime e tra quelle riconobbe la testa di suo marito.

Lo stesso Cola, alle sue urla disperate, l'aveva aggredita; ma un brigante di nome Marco Trupìa era corso in suo aiuto e, assieme agli altri ladroni stanchi della tirannia dell'uomo, lo aveva ucciso davanti ai suoi occhi, compiendo così la vendetta della donna.

Ecco di seguito il testo che leggiamo nella novella pirandelliana “L’altro Figlio”:

“[…] Vossignoria deve sapere che questo Canebardo diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne! I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena…

Tra gli altri, ce n'era uno, il più feroce, un certo Cola Camizzi, capo-brigante, che ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come se fossero mosche, per provare la polvere, – diceva – per vedere se la carabina era parata bene. […]

Venni a sapere, dopo sei giorni, che Cola Camizzi si trovava con la sua banda nel feudo di Montelusa…Giocavano là, in quel cortile… alle bocce… ma con teste d’uomini… nere, piene di terra… le tenevano acciuffate pei capelli… e una, quella di mio marito… la teneva lui, Cola Camizzi… e me la mostrò.

Gettai un grido che mi stracciò la gola e il petto, un grido così forte, che quegli assassini ne tremarono; ma, come Cola Camizzi mi mise le mani al collo per farmi tacere, uno di loro gli saltò addosso, furioso; e allora, quattro, cinque, dieci, prendendo ardire da quello, gli s’avventarono contro, se lo presero in mezzo.

Erano sazii, rivoltati anche loro della tirannia feroce di quel mostro, signor dottore, e io ebbi la soddisfazione di vederlo scannato lì, sotto gli occhi miei, dai suoi stessi compagni, cane assassino!”
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