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Corsi e ricorsi: il valore di dire "Anzicchè" a Palermo

Ma provate a lamentarvi: troverete sempre qualcuno pronto ad interrompervi e a dirvi, quasi con una nota di rimprovero: anzicchè lo hai, questo poco

  • 27 febbraio 2013

Anzi che. Sembrano due semplici parole, sette caratteri e uno spazio. Eppure questo innocuo intercalare, sospeso tra un dialetto imbarbarito e l’incedere volgare di una lingua sgrammaticata, parla di Palermo e dei suoi abitanti con il nitore di un'intuizione affilata.

Lo sappiamo: nella nostra città i problemi abbondano. Molte sono le situazioni che dovrebbero suscitare indignazione, dinanzi alle quali si dovrebbe protestare, reagire. Invece no. Tutto viene accettato con stoica sopportazione. Ci si accontenta del poco che si ha, anche quando quel poco è una miseria. Magari ci si lamenta, il gusto per un’estetica teatralmente drammatica rende il vittimismo una tentazione irresistibile. Ma provate a lamentarvi: troverere sempre qualcuno pronto ad interromporvi e a dirvi, quasi con una nota di rimprovero: anzi che lo hai, questo poco.

Ti scontri con la lentezza esasperante della burocrazia? Anzicchè alla fine, grazie a quella conoscenza, sei riuscito ad ottenerla la tua autorizzazione. Sei disoccupato e senza prospettive? Anzicchè ci sono i tuoi genitori ad aiutarti con la loro pensione. Hai aspettato per un’ora un autobus sporco e affollato? Anzicchè oggi la città non era paralizzata dalla solita manifestazione. Nel tuo quartiere l’immondizia viene ritirata dai cassonetti solo ogni tre giorni? Anzicchè viene ritirata, altrove la città sembra una grande discarica. Così questa banale espressione - Anzicchè - rimbalza tra le vie e le case di Palermo, carica di significati non detti come una cassata ricoperta di lussuriosi canditi.

C’è, in questa espressione, l’antica saggezza di una pazienza inesausta, quasi titanica; ci sono il fatalismo, il disincanto e un’amara rassegnazione dinanzi all’ingiustizia, all’arbitrio del prepotente, al degrado. Si accetta tutto, si considera normale ciò che non lo è. Un mondo capovolto, afflitto da un’apparente insensatezza che nasconde nella sua opacità le logiche omertose e contorte che lo governano. Un mondo in cui comportamenti diffusi che ignorano con noncuranza le regole, perché non ne comprendono il valore o ne giustificano la violazione, diventano essi stessi regola. Ed ecco, è proprio questo il momento in cui l’infezione si propaga.

Perché se le regole non vengono rispettate, allora il diritto diventa un favore per il quale occorre chiedere, pregare, a volte pagare, sempre ringraziare. Bisogna sgomitare per ottenere ciò che, resa impotente la legge, solo il potente di turno può dispensare; e non è proprio il caso di domandarsi se in questo modo ci si appropria di ciò che spetta ad altri, l’etica è un lusso troppo dispendioso. La furbizia diventa una virtù e l’appartenenza servile e compiacente ad una clientela un merito. Così nella rassegnazione si annida il veleno della disponibilità al compromesso.

Tutto è giustificato dinanzi alla necessità di procurarsi quelle maleodoranti briciole di benessere che consentono di ripetere ancora una volta la litania degli umiliati: anzi che. Accontentarsi di un piatto di lenticchie e, pur di conservarlo, prestarsi al gioco perverso di divenire complici del sistema di cui si è vittime. Anzi che ti viene concesso, di essere vittima.

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