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Corsi e ricorsi storici tra mafie e potentati

  • 4 dicembre 2006

Un intreccio parallelo fra due simboli di potere, con un banditismo d’altri tempi e personaggi contigui alla politica del proprio quotidiano. Questa la sintesi di “Due Siciliani”, un interessante romanzo-ricerca di Benny Antonini – architetto, archeologo, giornalista, scrittore – edito da Libridine (pagg. 287 - 16 euro). Un percorso altalenante fra due secoli, quello di Antonio Catinella, meglio noto come il brigante “Sataliviti” – per le cronache d’inizi Settecento – e Salvatore Giuliano, il bandito di Montelepre, vissuto nella prima metà del secolo scorso. Due storie, due realtà, che dipanano i propri fatti con impressionanti analogie. Una vita, quella di Giuliano, che ancora oggi fa discutere, appassionare – tanto da farne un musical – e che è in apparente contraddizione all’altra Sicilia, anch’essa rappresentata in lettera, musica e teatro, pure essa di potere, anche se nobile e decadente, con quel misto di finzione e realtà, “Il Gattopardo” di lampedusiana memoria.
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Ma è meglio restare al nostro libro. Perché è in esso, come luogo, che il potere politico (quello “legittimo”) esplica i suoi aspetti deformanti; con quel senso d’auto-tutela che si appoggia sulle ombre stesse della violenza. Ombre che crescono e fanno radici, poi alberi, divenendo un ingombro da potare, una volta passati i venti, la tempesta. La violenza che è un labirinto, un puntello ma anche un grimaldello brutale per la “legittima istituzione”, una trama oscura. Così nasce la lotta tra bene e male, dove l’uno è simile all’altro, in un contrario che non è mai opposto, ma semplice circolarità. Con quell’ordine-disordine che diviene caos e si traduce, per i nostri personaggi storici, in un’azione mutante che ne amplifica le esistenze, facendone apparire il mito. Basta un momento, uno sguardo, uno sgarro e il corso della vita cambia. Ed è proprio anche questo il libro di Benny Antonini, un romanzo storico della tradizione, dalla puntigliosa documentazione bibliografica.

E così i nostri personaggi, Sataliviti e Giuliano, per un amore proibito – dalla differenza di censo – o per un sacco di grano negato (contrabbando?), vengono avvinti dal demone della criminalità, assorbiti dal potere politico del tempo, quale sostegno alla critica fragilità del legittimo (re o governo che sia), in seguito capro espiatorio, in quel tutto in funzione di caos. Sono i nostri Robin Hood? Forse no, oppure chissà! Però è sempre chiaro il senso ricostruito col senno del poi, nonostante il romanzo, il destino degli uomini ovvero la fatalità, la “storia” raccontata, che da azione mutante, deformante, è un vortice di tempo, dove a restare è solo il mito, costruito ad arte e poi distrutto. Qualcuno si sporca, qualche altro debella. E poi, specie dalle nostre parti, fra “eros e sangue” si sintetizza la specificità di quello strano legame fra genti e potere, in qualunque modo esso sia conformato. Il romanzo – il primo che Antonini pubblica per l’editore Libridine – parte con un’abbacinante giornata di sole nella Mazara del Vallo del 1937 ed approda alle folate di polvere ed al terribile caldo in una Castelvetrano d’estate del 1950.

L’espediente di partenza è proprio la ricerca di un antico tesoro, tra le contrade delle province trapanesi, con un giovane Giorgio Sulfaro, in compagnia d’altri personaggi – dell’Italia fascista e sbandata – provenienti dal continente. Le pagine passano veloci, direi ondeggiano, saltando tra la seconda guerra mondiale, la Sicilia occupata dalle truppe alleate, la ricerca di un tesoro nascosto, il settecento di Sataliviti e i "separatisti" di Giuliano del 1950. Fatti veri, veritieri, di realismo storico e di pura invenzione che Benny Antonini mette all’evidenza del lettore, sprofondato nel pozzo più profondo, passato e presente, di una Sicilia non tanto distante.
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