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Intrigo a Berlino, macerie di cinema

  • 5 marzo 2007

Intrigo a Berlino (The Good German)
U.S.A., 2006
Di Steven Soderbergh
Con George Clooney, Cate Blanchett, Tobey Maguire, Beau Bridges, Tony Curran, Leland Orser, Jack Thompson, Robin Weigert, Ravil Isyanov

Il 2 maggio del 1945 fu una data fatidica per le sorti dell’Europa e dell’intero Occidente: due giorni dopo il suicidio di Hitler, all’interno del famigerato bunker sotto la cancelleria del Reich, l’Armata Rossa conquistò la città di Berlino segnando di fatto la fine della Seconda Guerra Mondiale. Di lì a poco i “tre grandi” vincitori, Churchill assieme a Truman e Stalin, si riunirono per la conferenza di Potsdam al fine di spartirsi i territori liberati e conquistati. Nuovi e più sotterranei conflitti si prepararono per una nuova era destinata a passare alla Storia con la sigla di Guerra Fredda. E’ questo lo scenario in cui si svolge la vicenda di “Intrigo a Berlino”, sceneggiato da Paul Attanasio sulla base del romanzo “Il buon patriota” di Joseph Kanon e diretto dal versatile (ma da un po’ di tempo discontinuo) Steven Soderbergh. Risulta chiaro fin dall’inizio che si tratta di un’artigianale operazione di mimesi nostalgica, impegnata a ricreare, con filologico scrupolo, atmosfere e maniere del noir classico degli anni ’40 condito d’intrighi e di passioni estreme, in questo caso sullo sfondo dei tormentati eventi politici e sociali che preparavano la fatale contrapposizione tra le due nuove superpotenze del mondo. Vediamo così Jake Geismer (George Clooney) arrivare, da corrispondente di guerra, nella Berlino devastata dei vinti: il suo è, in verità, un ritorno sul luogo che fu di lavoro (lì ha gestito un’agenzia giornalistica) e, soprattutto, d’amore per una relazione troncata prematuramente. Ad accompagnarlo, con funzioni di autista, c’è il caporale Tully (Tobey Maguire), intrallazzatore incallito del Midwest che campa con il mercato nero e il contrabbando (una sorta d’ideale parente, molto meno fascinoso, dell’Harry Lime de “Il terzo uomo”).

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Questi ha come pupa la bella Lena Brandt (Cate Blanchett) che, guarda caso, è proprio l’antica amante di Jake, donna smarrita ed intenzionata ad usare ogni mezzo per ottenere il visto d’uscita da quella metropoli di macerie. Quando il bieco Tully viene trovato, in territorio russo, con una pallottola nella schiena e centomila marchi nelle tasche, e la sua morte sembra lasciare indifferenti le autorità americane come quelle sovietiche, l’antica coppia si riunisce ad elaborare mestamente le trascorse passioni per poi impelagarsi in una complicata indagine (in puro stile RKO) che scopre progressivamente lo scandalo di traffici indicibili e di connivenze scabrose (c’è di mezzo anche l’ex - marito di lei). Il tentativo di recupero del fascino discreto dell’epica d’antan sconfina qui nel ricalco: in passato il regista aveva già tentato l’impresa di dare consistenza al proprio sogno di cinefilo incallito riproponendo i toni e le prospettive espressioniste alla Murnau in “Delitti e segreti”. Ma si può davvero evocare lo stile di “Casablanca” senza la forma e la sostanza di quel magico accordo tra attori, sceneggiatori, direttori della fotografia e registi che furono grandi non sapendo di esserlo? Certo che no, e questo film lo dimostra.

Anche perché lo sceneggiatore Attanasio non è un Graham Greene e il suo copione risulta inutilmente farraginoso, coi dialoghi fastidiosamente controllati e privi del delizioso, geniale kitsch che fece grande il marchio Warner. Soderbergh non nasconde il suo gioco concettuale utilizzando, in alcuni inserti, il girato (della Berlino postbellica) di Billy Wilder e William Wyler in omaggio a quei due indomiti giganti, e arrivando a recuperare, per la fotografia in un sulfureo bianco e nero, gli obiettivi dell’epoca (in questo, come in altri casi, firmandosi con lo pseudonimo di Peter Andrews). Ma il risultato è una goffa, artificiosa decalcomania manierata a cui fa da soffice contrappunto la colonna sonora alla Max Steiner di Thomas Newman. Senza passione e senza nerbo, “Intrigo a Berlino” lascia delusi nonostante la buona performance della Blanchett (che sa conferire echi di verità al suo melodrammatico ed inacidito personaggio di femme fatale dimessa, modello Marlene Dietrich), mentre l’intelligente Clooney (il cui fascino brizzolato e molto cool non ha niente a che fare con quello più scostante e misterioso di Bogart né con la sorniona follia di Cary Grant) fatica assai a conferire spessore ed ombrosità al suo protagonista. La pubblicità di questo film, che ha raccolto la liquidatoria perplessità delle platee all’ultimo Festival di Berlino, ci rimanda una dichiarazione di Lauren Bacall che è una specie di benedizione dall’Olimpo della loffia operazione di Soderbergh. Ma, si sa, compito dei divi è di mostrare un’ecumenica benevolenza se non altro come esempio di bon ton d’altri tempi, quei benedetti tempi dei classici intramontabili che non si fanno né si faranno più.

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