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Palermo, una città quasi felice?

  • 18 dicembre 2006

«Qui magistratum habes urbis curam te gerere ac tua fidei comissaiura meminisse debes», ovvero «Tu che hai la responsabilità delle cariche politiche della città, ricordati di amministrare te stesso e le prerogative affidate alla tua credibilità». Questa frase, che suona come un monito di richiamo a chi è chiamato ad amministrare una città, ricordando che tale compito di grande responsabilità è stato affidato dai cittadini, si trova nell’androne di Palazzo delle Aquile, sede del Comune di Palermo. Le stesse parole le leggiamo proprio nel frontespizio dell’ultimo libro di Gaetano Basile “Palermo felicissima (o quasi)” (Dario Flaccovio Editore, 15 euro).

La scelta di volerle porre come apertura del suo ultimo lavoro narrativo può essere un’interessante chiave di lettura e di interpretazione. Il libro si propone al lettore con lo stile, i toni e la scrittura di sempre che hanno contraddistinto Basile, giornalista e scrittore palermitano ma anche e soprattutto fine studioso e conoscitore di Palermo, luogo di cui ci si innamora, che molto spesso tradisce e delude ma che non si può assolutamente dimenticare. Il volume è stato presentato lo scorso 16 dicembre all’auditorium Rai, oltre all’autore sono intervenuti Mario Azzolini e Rita Cedrini, docente universitaria, a far da sfondo le musiche e i canti del gruppo musicale “I Ditirammu” con Rosa Mistretta e Vito Parrinello.
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Perché “Palermo felicissima (o quasi)?” «Nino Basile, un mio omonimo, agli inizi del novecento scrisse un libro dal titolo “Palermo felicissima” - spiega Gaetano Basile - descrivendo una città bella e soprattutto molto diversa da quello che oggi viviamo. Una città dove ognuno pensa di poter fare ciò che vuole, ecco perché la scelta di mettere nel titolo la parola “quasi”». E’ raccontata con arguzia e leggerezza Palermo, animata dall’universo dei suoi cittadini, dei suoi usi e costumi, della sua cucina dei suoi mali incurabili. Differentemente dagli altri, quest’ultima raccolta di saggi, brevi ma intensi dove ogni parola assume un significato privo di ogni retorica non riesce ad essere spensierato, ride ma di una risata amara. Un raffronto e uno studio sull’aria che si respira, sulla cultura e sui modi di vita, su quel che erano vicoli e strade e gente e su quello che sono adesso.

Un ritratto del capoluogo siciliano dolente, ancora tristemente alla ricerca di un’identità che risulta sconosciuta anche al giornalista che proprio alla fine del libro si interroga: «Chi può affermare di conoscere Palermo? Siamo stati prodi o vigliacchi? Civili o barbari? Pietosi o biechi? Eroi o mafiosi? Me lo chiedo spesso giacché è domanda che mi viene posta da chi, palermitano o forestiero, vuol sapere di più dei monumenti, dei paesaggi, dei viceré, della cucina o della mafia… E provo grande imbarazzo: non lo so».

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