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Quando Albini e i suoi figli conquistarono l'Etna

  • 6 giugno 2006

Eccezionalmente in trasferta catanese, Balarm.it vi rende conto di un evento nel vero senso del termine, il concerto degli Uzeda e degli Shellac ai Mercati Generali. Possiamo già iniziare con una nota vagamente polemica. Senza entrare nella trita, vera o presunta che sia, supremazia della scena rock catanese su quella palermitana, c’è da chiedersi perché la gente sotto l’Etna ai concerti ci va e qui invece no (a giudicare dagli accenti ascoltati, la presenza palermitana per l’evento era veramente sparuta). I Mercati erano pieni nonostante la serata fredda. Qualcuno potrebbe obbiettare che si trattava di due grandi gruppi, e che in particolare quella di Steve Albini è una figura chiave del rock mondiale, una sorta di guru di quella casta venerata aldilà del proprio lavoro come musicista, grazie alle sue produzioni. Obbiezione accolta, probabilmente anche a Palermo gli Shellac attirerebbero molta gente. Ma mettiamo sull’altro piatto della bilancia il prezzo del biglietto (17 euro), il luogo del concerto (piuttosto fuori mano, pur se vicino alla città) e il giorno della settimana (un lunedì) perché ci colga più di un dubbio su un’eventuale analoga riuscita nel capoluogo. Problemi annosi come quello degli spazi, problemi economici, problemi culturali? Stop alla polemica.

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L’aspetto artistico è sicuramente quello che ci interessa. Gli Uzeda si presentano sul palco forti dell’appoggio caloroso del pubblico di casa. Immediatamente ci si rende conto del perché Albini abbia scelto di produrli, in quel lontano inizio della scorsa decade, e allo stesso tempo si realizza anche quanto abbia pesato la mano del produttore statunitense sul suono della band. Il primo indizio è il muro sollevato dalla sezione ritmica mentre la chitarra “cesella” (si fa per dire, ma quando Agostino Tilotta usa lo wah-wah da quella sei corde esce il Rock). Un altro è la voce indolente di Giovanna Cacciola, a cavallo tra Kim Gordon e Pj Harvey (i cui inizi pure risalgono agli stessi anni del gruppo catanese, senza contare anche lì la produzione di Albini per “Rid of Me”). C’è psichedelia in quel suono, c’è noise. In definitiva c’è una band che come una meteora si stagliava nella scena italiana all’inizio degli anni novanta, ancor prima dei Marlene Kuntz dei quali non hanno mai eguagliato le gesta forse anche in considerazione di un maggiore estremismo sonoro (laddove anche la band di Godano non ha mai scherzato), e di un minore appeal.

Finito il set, di incredibile potenza, sorge un ingenuo dubbio su come (e se) gli Shellac riusciranno a superare i beniamini di casa. Ma è lì che si vede il tocco del maestro. Fuori tra voi – so che ci sono – i pervertiti che suonano la chitarra e nel delirio hendrixiano leccano le corde. Il sapore del suono degli Shellac è quello: metallo. Ferro. E sudore, nonostante la serata umida. Il trio ha un sound devastante, curato nei minimi particolari da Steve Albini ma a fare la differenza è l’insieme, perché cade ogni distinzione tra sezione ritmica e sezione melodica, la batteria non detta più il tempo ma disegna la canzone, e analogamente il basso, mentre la chitarra incide riff sempre spiazzanti, aperture melodiche sorprendenti che però nei pezzi più riusciti non sembrano mai fini a se stesse, ma hanno una certa presa sull’orecchio, comunque ben allenato, dell’ascoltatore. E se la cosa è già evidente su disco, tanto è più vero dal vivo: ci sono segnali, in queste due ore di inaudita potenza, che lasciano un esempio di una musica nuova in divenire, di autentica esplorazione creativa.

Arriva anche un certo punto del concerto in cui Albini si lascia andare a una sorta di monologo filosofico il cui slang americano stretto è apprezzato ma fino a un certo punto dagli astanti, mentre la band si lancia in improvvisazione. Lui si dilunga, il pubblico lo segue, o tenta di farlo, perché lo stima, anche se la cosa sembra non portare da nessuna parte, se non forse nella testa del musicista, il quale o non si cura degli sguardi perplessi o se ne compiace e continua per un bel po’. Immortale il commento di uno spettatore vicino, che sembra avere colto un ragionamento universale sull’uomo la cui ragazza gliel’ha – ehm – posta in termini che l’hanno lasciato contrariato: “vabbè, è un Claudio Baglioni estremista”. E’ il momento più statico di un concerto che riprende immediatamente più selvaggio di prima, a devastante conclusione di una serata di sano (?) rock.

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