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Se questi sono uomini

  • 24 settembre 2006

THE ROAD TO GUANTANAMO
Gran Bretagna, 2006
Di: Michael Winterbottom e Mat Whitecross
Con: Riz Ahmed, Farhad Harun, Waqar Siddiqui, Arfan Usman, Shahid Iqbal, Sher Skan, Nancy Crane, Christopher Fosh, Mark Holden

Le cose che oggi apprendiamo, quelle che i media ci mostrano, sono le cose che sono sempre accadute e che un tempo non apprendevamo perché ce le nascondevano. Sono “Cose di questo mondo”, per parafrasare il titolo con cui il regista Michael Winterbottom è stato premiato con l’Orso d’oro a Berlino nel 2003. In quel film si narrava di un drammatico e toccante viaggio di due giovani cugini afghani che cercavano di dare un senso alle loro vite in fuga dal Pakistan verso Londra. Un film che macinava dolore, alternando finzione e documentario, evidenziando come gran parte della sofferenza del mondo contemporaneo sia ancora provocata da un coacervo di conflitti politici e sociali.

Una cifra stilistica che Winterbottom sembra alimentare con crescente vigore e coerenza portando sullo schermo un’altra vicenda emblematica. Il suo ultimo “The Road to Guantanamo” ha vinto ancora una volta a Berlino l’Orso d’Argento per la migliore regia. Si tratta di un allucinante documento su una discesa agli inferi. Un baratro apertosi dopo l’11 settembre 2001, una voragine persino più profonda del solco provocato dal crollo delle Twin Towers. E’ la voragine della paura, immensa e in parte giustificata ma capace pure di generare fenomeni mostruosi che nulla hanno a che fare con l’idea di giustizia.

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Che cosa è accaduto nel “lager” di Guantanamo? Una dichiarazione come quella di Donald H. Rumsfeld, segretario di Stato U.S.A., documentata in questo docudrama lascia attoniti: “La convenzione di Ginevra è stata per lo più rispettata”. Subito dopo le immagini, quelle che conosciamo, quelle che abbiamo intuito. E la sofferenza di quattro amici, Ruhel, Asif, Shafiq e Monir rinchiusi ingiustamente in quella terribile prigione della Cuba statunitense, stremati dal sole, immobili come statue, con occhiali X-Ray a coprire la visuale. Il loro viaggio comincia in un giorno qualunque con l’intenzione di raggiungere il Pakistan dall’Inghilterra in occasione del matrimonio di uno di loro.

Gli eventi dell’11 settembre incrociano il loro destino e così a Kandahar inizia un incubo senza fine. I quattro sono fatti prigionieri dai soldati americani, in quanto presunti terroristi e potenziali complici del nemico numero uno Osama Bin Laden. Da qui il loro trasferimento che li segnerà per sempre, durante il quale saranno costretti a subire ogni genere di tortura psicologica e fisica votata ad estorcere informazioni false e documentazioni ritoccate per provare una colpevolezza che non c’è. Forse, per evitare l’ingiustizia sarebbe bastato guardarli negli occhi, osservare l’innocenza di questi sorrisi spezzati. Ma in certi luoghi e momenti della Storia il male trionfa in un confronto estremo tra vittime e carnefici. I superstiti condurranno le proprie stimmate per tutto il resto della loro vita.

Guantanamo è uno dei tanti cul de sac in cui l’America esportatrice di democrazia si è rifugiata. Di fronte ai flagranti documenti dei soprusi (ma non dimentichiamo che la denuncia rivelatoria è nata da un’inchiesta di un giornale americano!) non possono che risultare grotteschi i patetici appelli di Bush figlio (il Presidente più sbeffeggiato dopo Nixon) sulla Guerra Giusta ed infinita in nome di una Civiltà Superiore. La vita di questi ragazzi, e di molti altri come loro, è stata offesa e sconvolta, piegata alle regole sadiane di una vendetta da consumare entro le squallide mura di un Gulag dei giorni nostri. I tre sono liberi solo nel 2005 (mentre di Monir non si saprà più niente), fortunati perché capaci di dimostrare la loro estraneità all’ideologia terrorista.

Con “The road to Guantanamo” Winterbottom dirige in coppia con Mat Whitecross un intenso cine-pamphlet a metà tra il road-movie e il cinema verità esibendo impressionanti materiali d’archivio assieme alle testimonianze dei tre protagonisti che rievocano con commovente lucidità la loro terribile esperienza. Le cose che sono accadute, che accadono, che continueranno ad accadere richiamano, sullo schermo, la memoria di avvenimenti rappresentati infinite volte. E ancora ci troviamo di fronte l’esempio di una globalizzazione del dolore, di una resistenza dignitosa alla follia dei fanatici che sfogano i propri desideri di morte in nome di una guerra tra civiltà.

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