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Ungheria 1956, schegge di rivoluzione

  • 18 dicembre 2006

Nell’anno corrente si commemora il cinquantenario della rivoluzione d’Ungheria e, puntualmente la Sellerio, a dire il vero come molti altri editori, non si fa sfuggire l’occasione per proporci un volume che abbina al valore storico un più pratico carattere commerciale. “Ungheria 1956. Il cardinale e il suo custode" (Sellerio, 2006, pp. 237, euro 10) di Clemente Manenti è un libro composito, che prendendo spunto da un episodio affatto noto della vicenda, quale fu l’incontro fortuito, dettato dal destino, fra il primate d’Ungheria, cardinale Mindszenty, e il maggiore Antal Pálinkás, ci narra, grazie alle innumerevoli fonti riportate, i fatti dei moti ungheresi.

La pubblicazione è arricchita, oltre che dal racconto principale, da due scritti ampi e interessanti, forse ancor più della storia del cardinale e di Pálinkás: un’appendice fatta di testimonianze e nomi che il tempo ha scolorito e una bella e particolare postfazione di Adriano Sofri, in cui l’intellettuale, viaggiando fra i propri ricordi, intesse un parallelo fra la rivoluzione e i suoi miti giovanili, l’imbattibile Ungheria di Puskas e "I ragazzi della via Pal".
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La storia dell’ufficiale ungherese e del primate d’Ungheria sembra uscire dalla penna di Pirandello, ma purtroppo è vera: Antal Pálinkás era il nome posticcio di Antonio Pallavicini, un marchese di antiche origini italiane che decise di spogliarsi della sua identità per dare un taglio al suo passato di aristocratico nemico del popolo e del socialismo. Durante la rivoluzione la sua sfortuna fu tuttavia di essere stato incaricato di liberare il cardinale Mindszenty dal castello dove era stato rinchiuso dal regime comunista anni prima, cosicché, quando i russi invasero Budapest e riposizionarono dei politici a loro graditi al governo, il nome dell’aristocratico rispuntò fuori ed egli fu additato di aver servito alla prima occasione utile la controrivoluzione.

«Il nome è cambiato ma l’uomo è lo stesso», questa fu una delle prime accuse che Pallavicini ricevette ancor prima di essere stato messo sotto inchiesta come nemico della democrazia popolare socialista. Il nobile fu costretto a subire un processo farsa con conseguente condanna a morte e ancor prima dell’esecuzione, intuendo il verso delle cose, fu tanto lucido da lasciarci delle parole che hanno il sapore di un epitaffio: «Hanno bisogno di nemici di classe. Hai mai visto una controrivoluzione senza il nemico di classe? Io sono un marchese, io sono il nemico di classe».

Il testo di Vanenti, come ci conferma Sofri, non è nato come un libro, bensì come soggetto per un documentario tv e, sinceramente, di questo la pubblicazione ne risente. Il racconto (che presenta i maggiori difetti), l’appendice e la postfazione sono assolutamente slegati fra di loro. Mancando un disegno narrativo, lo scritto risulta sterile e noioso, e il lettore non riesce proprio ad entrarci dentro. La storia dell’ufficiale ungherese e del cardinale, se così importante o dimostrativa dei mali del socialismo reale, doveva essere dipinta un po’ più accuratamente, non soltanto disseminata lungo la trama degli avvenimenti.

Se piuttosto si trattava solo di uno spunto per raccontare il contesto in cui nacque la rivoluzione d’Ungheria, perché inserirlo come sottotitolo di copertina, lasciando così intendere chissà quale storia nella storia? A noi pare che, a dispetto della bontà delle fonti, sia un testo messo assieme in fretta, non rispettoso né della pubblicazione, né delle memorie che l’autore ha raccolto nel corso dei suoi studi, che avrebbero dovuto sortire un risultato ben diverso.

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