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Tra laghetti e fenicotteri rosa: nella riserva di Priolo c'è un piccolo "tesoro" nascosto

Nella Riserva Naturale "Saline di Priolo", a Siracusa, è conservato un mausoleo di epoca romana conosciuto come Guglia di Marcello: scopriamo la sua storia e la sua funzione

  • 22 luglio 2020

La Guglia di Marcello nella Riserva naturale "Saline di Priolo" (Siracusa)

A nord di Siracusa, fra la zona costiera dei lidi e la SP 114, si nasconde nel paesaggio un'area umida verde, una piccola oasi di biodiversità preservata dalle devastazioni dell’industrializzazione selvaggia iniziata nel Dopoguerra e, purtroppo, mai finita: la Riserva Naturale "Saline di Priolo".

Oggi gestita dalla Lipu, si sta risollevando dopo un devastante incendio che l’ha sferzata nel luglio dello scorso anno: la forza della natura, vitale e germinativa, sta facendo ricrescere giorno dopo giorno a vista d’occhio la macchia mediterranea attorno ai pantani che ospitano il passaggio stagionale dei rari fenicotteri rosa.

All’interno di essa, è conservato un piccolo tesoro della campagna siracusana: i resti di un mausoleo di età romana conosciuto come Guglia di Marcello. Il monumento, originariamente svettante e cuspidato – come dice lo stesso nome – è costituito da grandi e regolari conci parallelepipedi di calcarenite locale che formano un podio quadrangolare, di oltre 5 metri e mezzo per lato e alto più di 4 metri, il quale fa da basamento alla parte superiore, il vero e proprio corpo piramidale o, più verosimilmente, cilindrico/colonnare, andato quasi totalmente perduto nel corso dei secoli.
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La tecnica edilizia è quella dell' "opus quadratum", raffinata e senza leganti, con un'attenzione particolare alla messa in opera delle assise, all’alternanza dei giunti e impreziosita da intonacature e decorazioni di scalpellini locali, forti della lunga esperienza di tradizione "greca", di cui rimangono ormai deboli tracce.

Niente a che vedere con il noto console Marcello dell’assedio di Siracusa del 212 a.C. – durante il quale venne assassinato, come si ricorda, lo scienziato e matematico Archimede – del quale porta soltanto il nome, poiché anche la datazione del monumento è sicuramente posteriore, sulla base dei più recenti studi.

Ubicata nell’ex feudo di Biggemi e chiamata pure "Aguglia d’Agosta", dato che il territorio fu incluso fra i 36 feudi assegnati alla vicina città di Augusta da Federico II, la Guglia è conosciuta sin dal V secolo d.C. e, sia per la peculiare conformazione piramidale che per l’impatto percettivo nel contesto paesaggistico, affascinò viaggiatori, eruditi, cartografi e antiquari, così da esser rappresentata più volte in acquerelli e incisioni o descritta in testi odeporici e di storia locale.

Parlano di essa, nel ‘500, Claudio Mario Arezzo, Camillo Camilliani, Leandro Alberti e Tommaso Fazello: a quest’ultimo dobbiamo la descrizione della terminazione a forma “piramidale” e la notizia del suo crollo, nel 1542, a causa di un terremoto.

Nel secolo successivo è raffigurata da Vincenzo Mirabella fra le tavole della sua famosa opera “Dichiarazioni della
Pianta dell’antiche Siracuse” del 1613 e, poi, da Giacomo Bonanni e Colonna all’interno de “L’antica Siracusa illustrata” del 1624. Nel ‘700, dopo gli italiani Vito Maria Amico, Domenico Schiavo, Andrea Pigonati, Cesare Gaetani Della Torre e Ignazio Paternò Castello, sono i viaggiatori del “Grand Tour” a interessarsi fortemente della Guglia, ricordandola in numerosi resoconti di viaggio, come Jacques-Philippe D’Orville, Johann Hermann von Riedesel ed Henry Swinburne; o immortalandola in splendide tavole, come fecero Dominique Vivant Denon e Jean Houel nel suo celeberrimo “Voyage pittoresque”.

Tanti di essi furono incuriositi dall’insolita architettura, si interrogarono sulla sua funzione e tentarono ipotesi ricostruttive, ma in genere furono concordi nel sostenere fosse un monumento celebrativo o un sepolcro insigne, collocato in una posizione che garantisse immediata visibilità, in una sorta di dominio territoriale sullo spazio rurale circostante, e servito da una diramazione secondaria della grande arteria stradale costiera di età romana della Sicilia orientale, la “Via Pompeia”.

Altri esempi di edifici similari a sviluppo verticale balzano subito alla mente: il richiamo immediato è la “Colonna Pizzuta” di Eloro, o la perduta “Guglia” di Villasmundo, oppure ancora la “Tomba di Terone” ad Agrigento e, allargando l’orizzonte
geografico, i tanti sepolcri con copertura a cuspide piramidale della Sabina, delle città vesuviane, dell’Etruria e, infine, le tombe-obelisco dell’Africa settentrionale (ovviamente tutte da considerare, negli accostamenti, con le dovute differenze crono-tipologiche).

Di recente, un gruppo di ricerca del CNR di Catania, effettuando delle ricerche non invasive, senza scavi archeologici ma attraverso prospezioni e indagini geofisiche con innovativi e sofisticati strumenti tecnologici, ha chiarito una delle tante incognite della struttura.

Nel sottosuolo della Guglia e della zona limitrofa sono state riscontrate delle anomalie, ovvero delle discontinuità interpretabili come strutture sepolte: nello specifico, risulta interessante un’area vuota individuata proprio al centro di essa a conferma, adesso, di ciò che si immaginava da secoli per questa tipologia di monumenti, anche facendo dei confronti con casi simili del mondo ellenistico e romano (o, più da vicino, con il “Mausoleo di Agatocle” a Siracusa, del III-II sec. a.C.).

La cavità, quindi, potrebbe essere una camera funeraria destinata o a custodire il corpo del defunto illustre che il mausoleo voleva commemorare in eterno o, viste le dimensioni ridotte, all’alloggiamento di vasi, urne o piccole cassette per i resti combusti dell’incinerazione.

In futuro, solo uno scavo stratigrafico estensivo e in profondità potrà dare ulteriori conferme sull’esatta destinazione d’uso della Guglia, con agganci cronologici ben più precisi di quelli che oggi possiamo racchiudere in un periodo, grosso modo, che va dal III al I secolo a.C., ovvero dall’età ieroniana a quella romano-repubblicana.

E anche per poter fornire una nuova lettura di queste vestigia, toglierle dal loro isolamento e inserirle in un quadro insediativo ricco e di lunga durata, come già comprovato dalle ricognizioni di superficie, che hanno restituito numerosi frammenti ceramici dall’età arcaica sino alla piena età tardoantica.

Guardando anche i dintorni, infatti, tante sono le altre piccole soprese che serba il territorio: di fronte, protesa sul Mediterraneo, la penisola Magnisi con il più importante emporio miceneo dell’Occidente, Thapsos, che ha dato il nome alla “facies” archeologica del Bronzo Medio della Sicilia sud-orientale (1450-1250 a.C. circa), con le sue celebri necropoli e l’abitato capannicolo. O ancora, alle spalle, la piccola Basilica di San Foca, una delle più antiche chiese dell’intera diocesi, databile al VI-VII sec. d.C. e facente parte di un più ampio villaggio cristianizzato tardoantico e bizantino, come dimostrano le sepolture pertinenti ad esso nei vicini ipogei di Manomozza.

E, sullo sfondo, la barriera dei Monti Climiti, con tanti sentieri fra masserie fortificate proprietà di importanti famiglie del territorio, come quella dei Gargallo, resti di regie trazzere e di antiche scale tagliate nella roccia che collegavano i feudi della zona, come confermano i toponimi: “Climiti” deriva dal greco «klimax» («scala», per l’appunto) e “Scala Greca” è l’area che da qui si congiunge a uno degli ingressi dell’attuale città di Siracusa.
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