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Era la città (siciliana) con il maggior numero di processioni: l'insolito "record" di Pasqua

Nel 1702 il Governatore Juan Vázquez de Acuña y Bejarano ammise di non aver mai viste in nessun luogo così tante processioni a celebrazione della Settimana Santa

Daniele Ferrara
Esperto di storia antica
  • 29 marzo 2024

La processione delle barette a Messina

Gli eventi della Settimana Santa sono momenti di grande intensità e importanza nei luoghi di tradizione cattolica, con ritualità che addirittura precedono il Cristianesimo.

Tante in Sicilia sono le processioni famose, per bellezza e sentimento, da Trapani a Enna ciascuna con le sue peculiarità, mentre Messina aveva la fama d’avere il maggior numero di processioni nella Settimana Santa, ben quattro processioni per quattro giorni di fila: un vero record.

Nel 1702 il Governatore di Messina, Juan Vázquez de Acuña y Bejarano, un peruviano d’origini spagnole, e molti altri che avevano viaggiato in tutto il mondo cattolico, ammisero di non aver mai viste in nessun luogo così tante processioni a celebrazione della Settimana Santa.

A Messina i gruppi statuarii portati a spalla dai devoti si chiamano familiarmente "Barette" o "Varette", in principio "Bare", forse derivante dal latino uarae, in questo caso le stanghe che permettono ai Portatori d’alzare le piattaforme. In alcuni casi (non sempre è chiaro quando) le statue erano montate su carri trainati da cavalli.
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Ce le raccontano prima Placido Samperi nell'Iconologia della gloriosa vergine madre di Dio Maria protettrice di Messina e poi Giuseppe Cuneo negli "Avvenimenti della Nobile Città di Messina dalli 15 Agosto 1695” (III), ambedue sacerdoti gesuiti messinesi.

Avvenivano tutte al calar della sera.

Bisogna immaginare la città nell’oscurità, le strade illuminate soltanto da torcioni o fiaccole dei molti confrati incappucciati partecipanti e dalle moltissime candele montate su ciascuna varetta, gremite di gente che spesso praticava atti di penitenza al passaggio delle scene della Passione di Cristo, o nel migliore dei casi gettava fiori dai balconi.

I membri delle antiche confraternite sfilavano con le sembianze di "Babbaluci" indossando le "cappe", ovvero copricapi a punta coprenti il volto (cappucci) con due soli fori per gli occhi, e allo stesso modo vestivano le figure dei penitenti con cui talvolta si potevano confondere.

I riti della Settimana Santa venivano aperti, nella mattina del Giovedì Santo, da alcuni membri della “Confraternita del Santissimo Rosario di San Domenico”, i quali, indossando oltre ai loro saji bianchi – per cui erano chiamati “i Bianchi” – le cappe nere sul volto toccate di bianco e berretti neri con veletti d’argento, suonavano le legnose e sgraziate troccole annunciando quanto stava per avvenire.

La processione del Giovedì Santo, la prima a essere organizzata (nel 1610) con le “Varette della Passione di Cristo”, era animata proprio dalla Confraternita dei Bianchi, devoti al Rosario, con sede nell’Oratorio della Pace parte del complesso di San Domenico dei Domenicani (or Liceo Seguenza) ai Gentiluomini, da cui partivano in quella serata.

Si portavano: "L'Addolorata", la "Vergine Santissima con il suo dolcissimo Figliuolo morto", ciascuno dei Cinque Misteri Dolorosi con molte rose bianche, la "Bara di cristallo con il Cristo morto", ancóra una varetta con una vera Santissima Spina del Signore (dalla corona di spine) e la reliquia del Legno della Santa Croce.

Le "Biancuzze", ovvero le ragazze degli istituti appartenenti ai Bianchi, procedevano assieme all’Addolorata, vestite di bianco e con un velo a coprire il volto con coroncine, cantando “l’Improperij di Geſù Criſto”.

La processione si serviva proprio del Rosario per rappresentare le scene della Passione proprio secondo l’epitome dei Misteri Dolorosi.

Erano i membri della “Confraternita dei Santi Simone e Giuda” – altri Bianchi che indossavano saji bianchi stretti da cordoni neri con cappelli neri e visiere bianche – a salutare il Venerdì Santo in mattinata, recandosi coronati di spine con una corda al collo e scalzi a omaggiare il Sepolcro di Cristo nella cattedrale, ma poi, al calar delle tenebre, la scena passava ai Cappuccini.

Per la notte del Venerdì Santo le "Varette della Morte di Cristo”, la processione nata per ultima (dopo il 1644), erano preparate e gestite dai bruni frati incappucciati della Chiesa di San Giuliano (che ricadrebbe all’interno della Galleria Vittorio Emanuele) nel quartiere dei Cartolari (da non confondere quindi con quella moderna).

Questi monaci sulle loro varette facevano sfilare il Crocifisso, il Santo Sepolcro (in cristallo) con il Cristo morto e illuminato da candele, il “Cristo seduto in un torchio con ai piedi San Francesco”, seguivano poi una reliquia del Santo attorniata da cassette d’altre reliquie e “il Santo Legno della Croce”.

La processione aveva anche un carattere propagandistico-encomiastico, vista la presenza del simulacro e della reliquia del fondatore, San Francesco d’Assisi.

Quanto avveniva nel Sabato Santo cominciava al mattino, quando un cavaliere simboleggiante "la Vittoria”, vestito di bianco con ricami d’oro, incoronato, brandendo una lancia vermiglia con lo stendardo del “resurrexit” percorreva la Città annunciando l’avvenuta resurrezione del Cristo mentre tutte le campane suonavano – ritualità detta “la Gloria” – perché a Messina s’intendeva la Resurrezione avvenire nella mattina del Sabato.

La processione che si svolgeva alla sera del Sabato Santo, ovvero le “Varette della Resurrezione di Cristo” queste forte tutte trainate da cavalli, era animata dalla “Confraternita dei Santi Simone e Giuda” con il concorso dei Domenicani, partendo dalla Chiesa di San Girolamo in cui avevano sede, ospiti di quei monaci, nell’Amalfitania (Via I Settembre).

Nella notte, assieme allo stesso Cavaliere, passava (prima) un carro trainato da cavalli in bardature bianche e nere con "il Cristo Risorto" scortato da confrati che in questo caso sgargiavano indumenti vermigli come il sangue sparso divenuto simbolo di trionfo, poi un carro con un albero di fronde verdi e rose scarlatte fuoriuscente da un grande vaso d’argento tra i cui 15 rami (i Misteri del Rosario) stava assisa "la Vergine del Santissimo Rosario con Bambino”.

Poi seguivano «il Cristo Risorto assiso sul tumulo di cristallo», un "Cristo Risorto che appare alla Beata Vergine", "le Marie che vanno al sepolcro", il Santissimo Sacramento ostentato in un vaso d’argento, infine un’illuminatissima piramide sormontata da un Angelo con la Croce e altri angeli attorno. In questa processione trionfale si celebrava in maniera evidente anche la Madonna del Rosario, alla quale era rivolta la devozione dei confrati organizzanti e dei monaci loro amici.

Miglior approfondimento su queste processioni si può trovare nell’esaustiva “Storia delle Barette” scritta da Silvio Catalioto del 2010. Della processione dell’“Incontro” o “Festa delle Spampanate” (la quarta!), che si svolge all’ora del pranzo di Pasqua, conviene parlare altrove vista la differenza tematica.

Oggi le Varette ci sono ancóra, come un’unica processione pomeridiana/serale che dall’Ottocento ha sostituite le immagini metaforiche e con scene narrative, organizzata non più dai Bianchi ma dalla pur longeva “Confraternita del Santissimo Crocifisso il Ritrovato” che marcia in saji bianchi e mantelle rosse, violacee fino a pochi anni fa.

Il segno dei Bianchi tuttavia non è scomparso e la processione n’è intrisa: partecipano giovinette nei ruoli di Biancuzze che precedono l’Addolorata, sono presenti i Babbaluci con le misteriose cappe bianche suonando le troccole all’inizio del corteo o dinanzi al Cristo Crocifisso, e i tamburini in tenuta senatoria ma (eccezionalmente) bianca con tamburi recanti la scritta “PAX” (la “Pace dei Bianchi”), e il tempio che le custodisce è il Nuovo Oratorio della Pace, in riferimento all’Oratorio della Pace dei Bianchi.

Pur avendo Messina perso il glorioso record che possedeva, la processione delle Varette dal sapore antico che attraversa le strade della città più antica della Sicilia (1753 a.C. secondo San Girolamo) continua a essere uno spettacolo intenso e commovente, in crescente e costante recupero delle antiche tradizioni.
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