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Inchieste e relazioni mediche: Agrigento e la storia (terribile) dei "carusi" delle miniere

La storia inizia intorno al 1700 e attraversa due secoli, fino ai primi decenni del 1900. Riportiamo alcuni stralci dei documenti di quell'incredibile epoca

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 12 dicembre 2021

Bambini nelle miniere di Agrigento

Sono stati una piaga sociale per diversi decenni in Sicilia e in particolare nella povera provincia di Agrigento. I “carusi”, termine con cui in dialetto siciliano si intende un ragazzino sui 5-12 anni, venivano mandati a lavorare in miniera.

La storia inizia intorno al 1700 e attraversa due secoli, fino ai primi decenni del 1900. Di loro si sono occupati Prefetti, onorevoli, studiosi, per denunciare le condizioni di lavoro a cui erano sottoposti. Ma fu tutto inutile.

Nel 1863 il Prefetto di Girgenti Carlo Bosi era molto preoccupato per "l’improba fatica" di quei ragazzi, i carusi, che a migliaia lavoravano nelle miniere della provincia. Per il rappresentante del governo si tratta di un lavoro "che nuoce al loro sviluppo e altera la loro fisica costituzione, in guisa che gli zolfatari muojono giovani ancora". (dal discorso inaugurale del consiglio provinciale di Girgenti del 1864, pronunziato dal Prefetto Carlo Bosi).

Ma è soprattutto l’inchiesta parlamentare di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino del 1876 a mettere sotto accusa la condizione dei fanciulli nelle miniere: "percorrono coi carichi di minerale sulle spalle le strette gallerie scavate con pendenze talora ripidissime...Il carico varia secondo l'età e la forza del ragazzo, ma è sempre molto superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età, senza grave danno alla salute e senza pericolo di storpiarsi".
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In una relazione del 1880 di un medico di Girgenti al consiglio sanitario leggiamo : "I modi che gli imprenditori di questi fanciulli ( n.d.r. che erano i picconieri) adoperano per sollecitarli nel trasporto dello zolfo sono dapprima i più crudeli pizzicotti, tali da lasciare nelle carni delle livide sugellature per molti giorni; poscia, quando questi non bastano bruciano, o fanno bruciare dai commessi, per mezzo delle lucerne accese i garretti o i polpacci delle gambe dei poveri fanciulli sino a produrre delle scottature sulla cute. Io sono stato chiamato parecchie volte dagli istruttori e dai pretori per riferire sulla natura e sulla causa di siffatte maniere di violenze. Io ne posso fare testimonianza" (citato in Luigi Valenti, Le miniere di zolfo in Sicilia, Torino 1925,).

Vincenzo Savorini, docente presso il regio istituto tecnico di Girgenti (oggi Agrigento) pubblicò nel 1881 uno studio con il titolo “Condizioni economiche e morali dei lavoratori nelle miniere di zolfo” sottolineando che il più alto numero di lavoranti nelle miniere della provincia agrigentina era costituito da carusi, per lo più di età compresa tra i 7 e i 20 anni. Ben 2626 su 3875 operai contati nelle 72 miniere prese in esame. " Le loro condizioni igieniche, economiche e morali sono delle più infelici - si legge nell’inchiesta - La media del salario giornaliero non raggiunge la lira" ma aggiunge che "lo spirito d'ingordigia e di usura dei picconieri, dei capi mastri, e spesso anche degl'imprenditori di solfare fanno delle enormi sottrazioni” a quel misero compenso.

Si praticava inoltre, approfittando della disperazione delle famiglie, il cosiddetto “soccorso morto”, una vera e propria “compravendita” del caruso, una sorta d'anticipo in generi alimentari o denaro su quanto il bambino avrebbe potuto guadagnare lavorando: “ E' esso, sotto lo aspetto di un anticipo di lire cento, duecento, trecento sborsato dal picconiere nell'atto di arruolare un caruso, una vera e propria compera del fanciullo, perché esso soccorso morto è quasi sempre dato ai genitori dei fanciulli, e massimamente se questi sono minorenni". Una volta sborsata tale cifra, a vantaggio dei genitori, il picconiere poteva disporre del caruso come voleva.

Tutto ciò per una esistenza nel buio di una galleria, squarciato solo dalla fioca luce di una "lumera" (piccolo orciuolo di terracotta con becco, in cui passa un lucignolo), attraversavano con le ceste o i sacchi ("stirraturi"), stracolmi del materiale sulle spalle. Questi parìa, che allacciavano dei miseri cuscini ("chiumazzata") sulla testa facendoli scendere sulle spalle per alleviare la sofferenza del carico, si avviavano ricurvi per il peso (20-30 kg per i più piccoli) verso l'imbocco della galleria, compiendo dai venti a trenta viaggi al giorno. Lasciando infine le viscere della terra, si avviavano verso la “bastarella” (punto di raccolta del materiale zolfifero).

Beffeggiato, maltrattato, deriso, sfruttato per pochissimi centesimi, talvolta sodomizzato. Si cibavano di pane di infima qualità "che spesso intingevano nell'olio delle loro lampade".

Sul settimanale “Il progresso effettivo”, pubblicato a Favara (centro minerario della provincia agrigentina) il 7 settembre 1867, un cronista ha così commentato la sua esperienza con i carusi: «Questa verità sanguinosa dovrebbe pesare sulla coscienza dei nostri re dello zolfo che sacrificano intere generazioni al demone insaziato ed insaziabile dell’ignoranza boriosa o caparbia. Entrare in quelle mute dove il picconiere sferza e deturpa lo schiavo fanciullo — contemplare gli sforzi, le agonie, i contorcimenti di questi piccoli demoni col lume sulla testa che ti appaiono strisciando sulla terra come serpi di cui è impossibile classificarne la specie.

Udire le strida, gli aneliti, i gemiti interrotti e il sibilo dell’aria che mal si fa strada negli aggravati polmoni di piccole creature che consumano in pochi anni di lavoro la intera esistenza — è tale spettacolo in faccia al quale trattieni a stento una lagrima e la bestemmia ti sale volontaria sul labbro. La tratta di questi derelitti figli della sventura, non può che assomigliarsi agli osceni contratti che la società permette per la donna perduta. Qui come là, il debito incatena il fanciullo o la donna alle voglie di un padrone, alla sete sfrenata di guadagni—- qui sotto il peso di un carico che non può portare si accascia e cade una tenerella esistenza, là sotto il cumulo del disonore muore col sorriso sul labbro o la morte sul cuore una giovane vita che la società spinse ridendo su quella strada».
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