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Biagio Proietti, l'arte dello scrivere

  • 15 maggio 2006

Appassionati e studiosi di scrittura creativa per ore hanno avuto il privilegio d’approfondire il tema “Cinema, narrativa & Co.” (scritture a confronto) Il 12 maggio da Biotos (via XII Gennaio, 2) ha preso vita, infatti, un seminario interessante ad opera dell’autore, regista e sceneggiatore, Biagio Proietti, con la collaborazione e il coordinamento di Giacomo Cacciatore (autore del romanzo “L’uomo di spalle”, Dario Flaccovio). A margine dell’evento, si è parlato di “Una vita sprecata” l’ultimo parto letterario di Proietti, edito da Dario Flaccovio Editore (pp. 222, 13,00 euro). Un giallo che non si legge d’un fiato, ma trascina ed emoziona lo stesso. Fino a sperare che tutti i personaggi (poiché “si vive” il loro intimo e personale dramma) possano spuntarla (non vengano cioè definiti colpevoli). Per chi era assente venerdì 12, eccovi le nostre note, corredate dall’intervista che lo scrittore affabilmente ci ha rilasciato. Innanzitutto, presentiamolo: il romano Biagio Proietti (classe 1940) è uno che nella vita ha fatto quasi tutto. E’ stato autore di sceneggiati tv, notissimi soprattutto negli anni ‘70 (“Dov’è Anna?”, “Ho incontrato un’ombra”, ecc.), ha scritto e diretto film e spettacoli teatrali, ha lavorato in radio (anche per la Rai) e in tv, e ha pubblicato anche per Rizzoli.

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Per gli assenti, su cosa si è basata la sua lezione-conversazione al Biotos di Palermo?
«Far comprendere a chi lavora, soprattutto, nel mondo della comunicazione, quanto sia importante aver sempre presente la natura tecnica del mezzo espressivo di cui ci si serve per esprimere quanto si vuole raccontare».

In cosa cambia la scrittura letterale passando a quella per l'audiovisivo, a quella per il teatro o a quella per la radio?
«Lo stile è l’elemento vitale di ogni scrittore ed è quello che ne determina la grandezza. Nella scrittura letterale lo stile è ancor più determinante, perché il rapporto fra l’autore e il lettore è diretto. Il lettore può leggere quello che lo scrittore intende raccontare. Negli altri generi, diversi fra di loro ma accomunati da questo particolare, il frutto del lavoro arriva allo spettatore mediato dall’intervento di altre persone, come il regista, gli attori, i tecnici eccetera. Nel momento della scrittura, l’autore deve tenere presente queste varie esigenze, quindi è meno libero rispetto a chi scrive un romanzo».

E' indubbio. Ci sono altre differenze?
«Ci sono sì altre differenze, e molto più complesse e intrinseche alla natura nel mezzo: basta pensare a come cambia un dialogo, se scritto su carta o se recitato in un film o in televisione o in teatro o per radio. Dette le parole hanno sempre un sapore diverso da quelle scritte. Mi ricordo il grosso lavoro che si dovette fare nella versione televisiva di “Madame Bovary” dove fu terrificante rendere la bellezza della scrittura di Flaubert».

Possiamo immaginare. Riprendendo un suo concetto "la scrittura non come teoria ma come pratica", ce lo chiarirebbe?
«Lo dicevo riferito al momento dell’insegnamento, in quanto credo che non sia possibile insegnare a scrivere, ma sia invece doveroso insegnare la padronanza della tecnica, riferita ad ogni singolo genere. E per fare questo la cosa migliore è la pratica, cioè far esperimentare agli allievi quello che si deve fare. Anche dopo la scuola, non si smette mai di imparare e lo si fa lavorando».

Restando in tema, che ricordi ha degli anni di scrittura passati nella scuola di Roma? Quale pensa sia stato l'insegnamento più grande che ha lasciato ai ragazzi?
«Insegnavo scrittura televisiva. Per quanto riguarda gli allievi, l’età media era 25-26 anni e molti erano già laureati. L’insegnamento più grande è stato quello del lavoro, nel senso che nell’arco dei due anni ho fatto in modo che loro, insieme e non da soli, come erano abituati, scrivessero due sceneggiature complete e professionalmente valide, tanto che furono anche mandate a vari concorsi. E la conferma viene dal fatto che quasi tutti continuano a lavorare in questo settore, con alterne fortune ma con notevole serietà professionale».

Ottimo. Lei è stato autore, regista (anche delle proprie opere), sceneggiatore per il cinema, ha inaugurato la stagione dei gialli televisivi Rai, ha lavorato per la radio e per il teatro, dimentichiamo nulla? Qual ritiene sia stata l'esperienza più gratificante?
«Domanda difficile, perché io mi sono sempre divertito, e tranne rare eccezioni non rinnego nessun lavoro fatto. Ovviamente dopo più di quaranta anni, quasi 45, di lavoro - ho cominciato giovanissimo - ci sono esperienze che ricordo con maggiore piacere di altre. Il divertimento è stato anche passare da un’esperienza all’altra perché per farlo c’era sempre da imparare le differenze, di cui ho parlato prima. Imparare è affascinante come insegnare e oltre tutto ringiovanisce. Negli anni settanta e ottanta fare la televisione che ho fatto io ha comportato anche il rinnovamento sia dei contenuti che del linguaggio, basti pensare che i famosi gialli televisivi hanno fatto scuola e resistono ancora adesso dopo trenta anni».

Ha qualche rimpianto?
«Un rimpianto mi resta nel cinema perché alcune sceneggiature che ho scritto non sono riuscito a realizzarle, e secondo me erano piuttosto belle. Ma credo che questo succeda ad ogni autore».

E del teatro che ci dice?
«Il teatro è una scoperta recente, mi sto divertendo a scrivere soprattutto monologhi perché li ritengo la forma più tipicamente teatrale. Ne ho realizzati due su scrittori che amo molto, Edgar Allan Poe e Dashiell Hammett».

Veniamo al suo ultimo libro, "Una vita sprecata". Com'è nato? Non sveliamo la fine, ma come ogni giallo che si rispetti, ci ha lasciato, sulle "note" del grande Giorgio Gaber, l'amaro in bocca…
«Spero che non sia per la delusione…».

Assolutamente no… Continui.
«In questo momento mi piace di più lavorare per la narrativa perché sto imparando sempre di più ad avere il piacere della scrittura, dello stile. Mi sento più libero perché negli altri settori il condizionamento produttivo sta diventando sempre più forte e soffocante. È difficile esprimersi come una volta o forse sono sicuramente meno giovane di prima, vecchio mai, per aver voglia di combattere contro i mulini al vento. In “Una vita sprecata”, sono partito da una domanda che un giorno mi sono fatto: cosa succede ad un uomo che sta fuggendo da un’esperienza dolorosa se all’improvviso si trova coinvolto in un’altra tragedia? Come cambia la sua vita? Da questo sono nate situazioni ma, soprattutto, personaggi ai quali mi sono affezionato, al punto tale che sto finendo di scrivere un secondo romanzo che li vede di nuovo protagonisti. Per questo ho abbandonato due altre storie. Ma per citare il mio amato Giorgio Gaber, che anche in questo secondo romanzo sarà la “colonna sonora”, quando si vuole fare una cosa si può… si può…».


Certo che sì. Restiamo in attesa, allora, del prosieguo di questo secondo romanzo. Ci protegga, se la inserirà, il commissario Daniela Brondi. Come ogni personaggio ben scritto, sembra abbia vita reale, e ha tutta la nostra simpatia.

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