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Correva l'anno 1956

  • 27 novembre 2006

La copertina di “1956. Krusciov contro Stalin” (Sellerio, 2006, pp. 144, euro 10) oltre ad essere elegante non consente fraintendimenti: illustra la figura stilizzata di Nikita Krusciov, il celebre statista sovietico, che, su un fondo rosso, indica la strada da seguire. Demetrio Volcic, una vita da corrispondente estero della Rai nei paesi dell’ex blocco comunista, confeziona un’inchiesta ricca di fatti, di personaggi e anche di succosi aneddoti. Il 1956 dal punto di vista politico è stato senz’altro un anno spartiacque che ha influenzato la seconda metà del secolo scorso. L’autore pone l’accento su due eventi fra tutti: il XX congresso del PCUS e l’invasione d’Ungheria.

A parere di Volcic il motore scatenante dei colossali avvenimenti del ’56 è il XX congresso, in cui il neo segretario Krusciov, rende note e condanna le atrocità commesse dal suo predecessore Giuseppe Stalin. Le purghe e i lager del dittatore avevano causato secondo lo statista, che era un suo stretto collaboratore, la morte di dieci milioni di connazionali. Queste furono le cifre che lasciarono di stucco i delegati del congresso e che soppiantarono i dati ottimistici che la propaganda occidentale alimentava da tempo. Egli si disfa in questo modo della figura ingombrante di Stalin, morto nel 1953, e dei suoi amici ancora in vita, afferma la sua leadership e glissa sulle sue responsabilità e su quelle del partito comunista addossando la paternità del terrore esclusivamente allo stalinismo.
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Lo sconcerto è grande e le reazioni sono contraddittorie. Dal comitato centrale del congresso la relazione letta dal segretario del partito fa il giro del mondo dando così la stura al nuovo corso contraddistinto dal carattere della distensione verso nemici e sodali. Ma la storia non pare accontentarsi delle mezze misure: i paesi alleati approfittano della svolta destabilizzante del capo del Cremlino. Dopo una crisi con la Polonia ripresa per i capelli, Krusciov si ritrova fra le mani la patata bollente Ungheria. Ad ottobre a Budapest l’atmosfera è elettrica, la folla richiede a gran voce libertà di stampa, democrazia, risorgimento. C’è un clima antisovietico, la piazza è eccitata, succede che qualcuno spara per primo e la rivolta nei confronti del nemico rosso esplode. Anche i militari ungheresi si uniscono alla rivoluzione.

Il Cremlino fa intervenire a più riprese i reparti militari russi, tanto che Nagy, il primo ministro ungherese, annuncia alla radio: «All’alba le truppe sovietiche hanno lanciato un nuovo attacco contro la capitale, con l’intenzione di abbattere il governo legale. Le truppe ungheresi combattono e il governo è al suo posto. Voglio che tutti gli ungheresi e tutto il mondo sappiano che cosa succede». La rivolta dopo venti giorni viene schiacciata nel sangue dalla potenza militare sovietica e lungo i due anni successivi oltre a tanti civili vengono giustiziati il generale Maléter, eroe della rivoluzione, e Imre Nagy, additato come responsabile dell’insurrezione suo malgrado. Il racconto di Volcic è ben scritto e godibile, i frequenti balzi storici che dissemina lungo il libro, per spiegare meglio i fatti, non lo rallentano né gli danno discontinuità.

Le analisi che ne trae sono condivisibili, il quadro storico e geopolitico che delinea è chiaro. Il rapporto tra Krusciov e Stalin ci sembra scandagliato con dovizia di particolari. Illuminante è poi la considerazione sul nuovo capo che rifà gli evidenti errori che lui stesso aveva condannato nel vecchio. Mentre una lacuna è, francamente, aver solo accennato le reazioni che il Pci di Togliatti ebbe in seguito ai gravi fatti del ’56. Una chicca in senso assoluto della pubblicazione dell’ex inviato Rai è, poi, il capitolo che riguarda la morte di Stalin, dove la tragedia del tiranno si mischia alla farsa. La fine grottesca di un colosso, nel bene e nel male, del secolo scorso, che tronfio della sua personalità malata e sanguinaria amava dire: «C’è uomo e c’è problema, non c’è uomo e non c’è problema».

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