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Identità e parola: intervista a Dacia Maraini

  • 23 ottobre 2006

Una delle sale più preziose, quella di lettura della Biblioteca comunale, apre i battenti “per un incontro illustre”, viene detto nelle prime battute. Dacia Maraini ospite d’onore, con la sua mise composta attende e accoglie ogni intervenuto quasi fosse lei la buona padrona di casa. Pareti di libri e storia affacciati da balconate lignee l'abbracciano calorosamente: «quale scenario migliore», dice, accompagnando con lo sguardo tutta la sala. Una cinquantina di copie dei suoi ultimi libri “I giorni di Antigone” e “Amata scrittura”, s’impilano sul vetusto tavolo da biblioteca a qualche centimetro da lei.

«Il teatro per me è il momento civile. Il momento della riflessione tra l’essere umano e la società in cui abita» così la scrittrice vara l’illustrazione del suo progetto teatrale triennale col Teatro Biondo. Il primo dei tre futuri spettacoli, “Notabartolo”, nasce dalla lettura della biografia dell’ex sindaco palermitano, primo grande omicidio di mafia; colui che, continua la Maraini, «amava applicare la legge e per tale ragione si dimostrò il più rivoluzionario di tutti i rivoluzionari». Terminato recentemente, affidato alla regia del maestro Pietro Carriglio (che probabilmente si occuperà anche degli altri due) e al palcoscenico palermitano.

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«In Sicilia troppe persone straordinarie rischiano la loro vita come Notabartolo», così si approda al senso di sicilianità dell’autrice, esportato all’estero, e a chi in quei paesi che le hanno riconosciuto meriti le chiede come possa amare una terra così difficile ed ammalata come la nostra lei risponde: «In fondo ciò che manca in Sicilia è la mediocrità». Eccola, la “donna degli aforismi”, soprannome che le affidiamo per le tante frasi adatte ai sensi, capaci di rapire la sala e condurla ad un applauso non ammaestrato. La sua semplicità colpisce, senza palcoscenici o strutture dovute a quella fama che traduce i suoi libri in ventidue lingue.

Questa donna dagli intensi occhi verdi colloquia senza vezzi, parlando, quasi fosse la prima volta, del suo amore per la scrittura, per la nostra isola ritornata tra i suoi scritti, dell’importanza del teatro e delle contraddizioni nelle sue piece, «poiché il dramma non è teatro senza la contraddizione». Il ticchettio dell’orologio non infastidisce l’oratrice esperta, che si concede alle domande, che applaude il portavoce della piccola rappresentanza degli occupanti della Cattedrale in cerca di abitazione, senza infastidirsi per quell’intromissione non programmata. Dopotutto niente sembra essere stato battuto su un canovaccio e si vaga da un luogo all’altro della creazione letteraria sino alla poesia definita «momento di assoluta bellezza, progetto musicale di cui non si può fare a meno».

«La frequentiamo poco la poesia», così Dacia discendendo gradini inchiostrati parla della malattia della lingua, ispessita e appesantita da termini stranieri. L’importanza del rapporto dialettico con il pubblico è richiamato sovente tra le sua battute che insistono a descrivere i cambiamenti della nostra società, governata dall’essenzialismo, in cui la tecnologia usata in maniera sbagliata dovrebbe essere rieducata da una coscienza collettiva proba, attualmente inesistente. Poi ritorna all’illustrazione del secondo progetto, “Fotografie di casa Florio”, nato dalla visione di istantanee della famiglia siciliana. Un pezzo corale che racconta la Palermo Liberty più gloriosa, «una Palermo forse ormai perduta per sempre e che ha dato a questa città cose bellissime».

Il terzo progetto “Tre voci femminili” è invece articolato in tre monologhi. Donne diverse legate da uno stesso filo conduttore: il rapporto con i figli e il senso della maternità. Nel primo monologo a parlare è la madre di un pentito ucciso; nel secondo una donna che parla alla figlia, ignorando il fatto che quest’ultima è l’amante del compagno; nel terzo, ancora incompleto, vi è il difficile dialogo tra una madre ed una figlia drogata. Parole continuano a sciorinare i soliti temi di mille interviste già fatte, talune con la voglia di raccontare la cultura e le voglie della nostra città, altre con l’alternativa d’indagare nell’ultimo progetto e scrivere semplicemente uno dei tanti articoli. Ci ha provato anche Balarm.it.

Tante interviste col suo nome in grassetto, che hanno scavato dentro la sua scrittura, il rapporto con lo stile, le andature del verso, la contrapposizione tra improvvisazione e tecnica. Indagando sul suo senso d'identità e la relazione con la parola: qual è il suo rapporto con essa?
«Guardi, io con la parola ci combatto tutti i giorni, è come un corpo a corpo. La parola per me è una scommessa, è qualcosa che devo approfondire, capire, utilizzare ma nello stesso tempo inventare. Non è facile perché la parola si trasforma, perché il linguaggio parlato cambia, il linguaggio italiano cambia. Continuamente, tutti i giorni, devo avere a che fare con questo linguaggio e soprattutto quando scrivo teatro, perché il teatro poi in bocca agli attori deve essere credibile, non può essere letterario e lì sono dolori, perché cerco di renderlo credibile senza però cadere nella banalità della lingua quotidiana».

Se lei fosse una parola?
«Le parole sono come le ciliegie, non ve ne può essere una sola. Sono tante. Non se ne può scegliere una sola. Una tira l’altra».

Nelle sue opere come nella sua vita si assiste al rapporto con la dimensione del femminile o alla valenza femminista. Si sente una femminista o solo una scrittrice impegnata a esplorare e raccontare l'universo femminile?
«Femminista non so più che vuol dire oggi, perché è legata ad un’ideologia che oggi non c’è più, il movimento non c’è più. Quindi diciamo che sono una donna attenta alla storia e alla problematica delle donne».

È contenta delle donne di oggi, delle donne scrittrici?
«Sì, ce ne sono parecchie e sono anche molto brave. Di alcune sono anche molto amica, per esempio Elena Giannini Belotti che ha appena scritto, l’ho letto da poco, un libro molto bello sull’immigrazione, si chiama “Pane Amaro”. Poi la Mazzucco, Elisabetta Rasy…»

E Oriana Fallaci?
«Ne ho molto rispetto. Penso sia stata una giornalista di grande spessore, di grande coraggio, non sono assolutamente d’accordo con le sue idee però con tutto rispetto perché penso sia stata una persona di grande dignità».

Virginia Woolf diceva che a una donna per scrivere occorre del denaro ed una stanza tutta per sé. Crede che oggi diventare scrittore sia un lusso? Oltretutto asservito a regole commerciali?
«Beh io non lo credo del tutto vero. Sa, gli scrittori fanno altre cose. Fanno i giornalisti per esempio. Nessuno scrittore in Italia vive solo col suo lavoro, non si vive con la sola letteratura. Nemmeno Eco. Tutti gli scrittori d’Italia fanno un altro mestiere: insegnano, lavorano alla Rai, nei giornali…»

Ha mai subito delle pressioni commerciali, dei tagli nelle sue opere?
«No. Nemmeno all’inizio. Poi uno scrittore che ha passione per il suo lavoro non le accetta. Se uno ha una passione la difende».

In un'intervista per RaiNews ha detto che in lei coesistono differenti identità, leggere significa entrare nelle identità altrui. Citandola testualmente: «Ogni volta che io entro dentro un personaggio diventa parte della mia vita». Nel suo libro "Lettera a Marina", datato 1981. L’identità della donna di un'altra donna. Cosa di Bianca è divenuto parte della sua vita?
«Quella era un’epoca in cui si esplorava la molteplicità delle esperienze sessuali. Era importante e oggi è ritornato il senso di questa identità sessuale. Non sono una sociologa, sono una scrittrice. Ho raccontato questa storia perché a me sta a cuore il problema che riguarda ruoli, sessualità, rapporto dei generi. Ci riguardano da vicino come donne e il nostro stare nel sociale passa attraverso questo».

Quindi Bianca non esiste?
«No. Quando faccio un romanzo sono sempre personaggi inventati. Se faccio autobiografia come "La Nave per Kobe", "Bagheria", parlo di me e della mia famiglia».

La sua identità siciliana è fatta di eredità materne e del tempo, otto anni vissuti tra Palermo e Bagheria. Qual è questa traccia di sicilianità che si porta ancora dentro?
«A me quello che piace dei siciliani, in generale perché ognuno poi è diverso, del carattere siciliano è l’atteggiamento filosofico innato e antico, che può trasformarsi in bizantinismo però può anche essere un atteggiamento che porta ad andare fino in fondo».

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