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Sconosciuti in taxi

  • 13 dicembre 2006

IL MIO MIGLIORE AMICO (Mon meilleur ami)
Francia, 2006
Di: Patrice Leconte
Con: Daniel Auteuil, Dany Boon, Julie Gayet, Julie Durand, Jacques Mathou, Marie Pillet, Elisabeth Bourgine, Henri Garcin, Jacques Spiesser.

C’è più di qualche affinità elettiva tra il personaggio di Jean Rochefort in “L’uomo del treno”, un misantropo il cui appartamento somiglia ad un negozio d’antiquariato, e il protagonista di questo “Il mio migliore amico”: entrambi sono film di Patrice Leconte, ispirato narratore di solitudini inquiete. Il François Coste di Daniel Auteuil è per l’appunto un antiquario di professione, scontroso ed irresistibilmente votato alla contemplazione dei suoi oggetti d’arte che per lui possiedono un valore inestimabile aldilà del loro prezzo d’asta, come il lacrimatoio greco d’epoca classica soffiato per 200 mila euro ad un produttore televisivo e raffigurante sul bordo, un’emblematica scena dell’Iliade, quella dell’archetipico legame tra Achille e Patroclo.

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Sedotto dalla propria quotidiana routine fatta d’appuntamenti di lavoro, scostante con la sua occasionale e fin troppo comprensiva amante, l’uomo finisce per cedere alle maliziose lusinghe di Catherine (l’ottima Julie Gayet), sua socia in affari, che lo tenta con la rischiosa scommessa di trovare un amico in dieci giorni, sfida che ha per palio il prezioso vaso antico con le figure di Omero, oggetto decisivo (non solo simbolicamente) nello sviluppo della vicenda. Sullo sfondo vibrante di una Parigi denudata del suo proverbiale glamour, metropoli piovosa ed alienante tutto sommato provinciale, Leconte compone un ironico apologo sul desiderio di sentimenti forti che, nonostante l’edonismo andante, sembra ancora conquistare il cuore degli uomini e così “Il mio migliore amico” sembra un nuovo capitolo dell’ideale sua “commedia umana” (il cui retrogusto evoca però più Simenon che Balzac), cominciata con “Tandem” e proseguita fino al già citato “L’uomo del treno”.

La commedia agrodolce che si apre con la sequenza di un funerale a chiesa semivuota con solamente otto astanti, e dunque con il monito sempre valido che alla fine d’ogni esistenza si raccoglie ciò che si semina, trova come interprete eletto un magnifico Daniel Auteuil, qui tornato alla sua concreta e brillante finezza d’attore mostrata fin dai tempi di quel capolavoro che rimane “Un cuore in inverno” (del maestro di tutti Claude Sautet) dopo le sue ultimissime svogliate prove (specialmente nel recente mediocre “N - Io e Napoleone” di Paolo Virzì). Il suo François (che vediamo, in una scena centrale del film, aggirarsi nella città svuotata in preda ad una vertigine di solitudine) finisce per abbandonarsi al casuale incontro con il tassista Bruno Boulet (il sorprendente Dany Boon), estroso conoscitore di strade parigine e dilettante erudito con la smania di finire davanti le telecamere di un quiz a premi (e qui il regista lancia le sue allusive sfrecciatine a proposito dell’attuale melassa del sapere a buon mercato).

L’incrocio con questa solitudine più solare ed empatica è l’occasione giusta per far vincere la scommessa al protagonista, dimostrando come una virile amicizia, nata per neutralizzare l’ipertrofico narcisismo di due individualità in crisi, possa risultare a volte più forte dell’amore usato come compravendita dell’anima. Sulle orme di Bruce Chatwin e del suo “Utz”, con leggerezza da virtuoso dell’allusione e servito da una sceneggiatura adamantina, Leconte arriva a far quadrare il cerchio attorno alla sorte del suo antiquario in cerca d’umano calore, raccontandoci, in un film piacevolmente sofferto, dell’attuale smarrimento che tutti contagia a proposito della perdita d’ogni valore nelle cose e nelle persone, in questa nostra realtà ridotta a mercato globalizzato e teleguidato dove però ognuno continua ad esigere un po’ d’affetto, di tanto in tanto.

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