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Storia dei (primi) Leoni di Sicilia: l'ascesa dei Florio e l'amore negato tra Vincenzo e Giulia

Vi raccontiamo la vita dei due protagonisti della nota fiction tratta dal libro di Stefania Auci, interpretati sullo schermo da Michele Riondino e Miriam Leone

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 15 novembre 2022

La dinastia dei Florio

Vincenzo Florio "soleva dire: - Ci sono uomini che parlano di affari, altri che con gli affari ci parlano. Io appartengo a questi ultimi - La mente di Vincenzo era sempre presa dalle navi, dalle cose che si muovevano. Per lui la più bella vittoria era sempre quella da venire. Aveva la mentalità del grande imprenditore e finanziere, con la virtu’ di sapere leggere nel cuore della gente" (V.Prestigiacomo).

Vincenzo era nato il 4 Aprile 1799 a Bagnara Calabra, un piccolo paese sul mar Tirreno, da Paolo e Giuseppa Saffiotti, ma sin dalla prima infanzia aveva vissuto a Palermo dove i genitori si erano trasferiti perché Paolo Florio, in società con il cognato Paolo Barbaro, aveva rilevato un esercizio commerciale, un negozio di prodotti coloniali, spezie ed erbe farmaceutiche. La società Florio e Barbaro nel 1803 si era sciolta e la bottega in Via Materassai, nel piano di San Giacomo, di fronte alla chiesa di Santa Maria La Nova, era rimasta a Paolo Florio che aveva continuato da solo un’attività ormai diventata relativamente prospera.
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Lo stile di vita dei Florio era sobrio, abitavano nell’appartamento sopra la drogheria, dove non si organizzavano ricevimenti e feste da ballo, ma Paolo e la moglie una volta al mese amavano andare a teatro. In casa c’erano due domestiche e in estate la famiglia andava in campagna in villeggiatura.

Nell’Aprile del 1807, Paolo si era ammalato all’improvviso e si era spento il mese successivo. Vincenzo aveva solo otto anni: troppo giovane per prendersi cura della bottega delle spezie. Lo zio Ignazio Florio, fratello minore di Paolo, aveva diretto e gestito al posto di Vincenzo l'amministrazione del commercio della società, che era stata chiamata ‎‎Ignazio & Vincenzo Florio.‎: I.V.Florio.

Sotto la guida dello zio, Vincenzo aveva cominciato la pratica degli affari. A poco a poco, il negozio era diventato sempre più famoso: l'eredità finanziaria di Paolo si era triplicata nel decennio tra il 1807 e il 1817. Nel 1824 era iniziata l’ascesa economica della bottega grazie alla vendita del “cortice” (polvere della corteccia triturata), un farmaco che anche le persone meno abbienti potevano acquistare.

Nel 1828 Ignazio Florio, scapolo, era morto senza discendenti e Vincenzo, a 29 anni, era diventato l'unico erede del negozio di famiglia. Il grande capitale ereditato ed accumulato gli permetteva di ampliare il suo giro d’affari. Aveva iniziato una serie di investimenti, diversificando i campi commerciali, dallo zucchero al carbon fossile, dal rame alle assicurazioni.

Vincenzo era preso dal turbinio degli affari e dall’ansia di costruire il suo impero, sembrava non avere tempo per altro. Mangiava con moderazione e beveva poco, per rimanere lucido. Andava a letto presto e si alzava prima dell’alba. Di animo generoso, come lo zio Ignazio, "non dimenticava il povero e la sua mano si apriva al soccorso dello sventurato e del derelitto; il suo cuore era sensibile all'altrui calamità" (G.Casati).

Gli anni tuttavia passavano in fretta ma sembrava che il giovane Florio, che non aveva ancora preso moglie e continuava a vivere insieme alla madre Giuseppina, non avesse voglia di costruirsi una famiglia.

Si raccontava nell’ambiente familiare, dopo la sua morte, che al principio della sua carriera, quando aveva già guadagnato parecchi milioni di lire, una nota famiglia aristocratica non avrebbe disdegnato di legare il suo blasonato nome a quello di Vincenzo, popolano ma ricco, a patto che smettesse con il commercio, della qualcosa il Florio non volle proprio sentir parlare.

In attesa di trovare la compagna della sua vita, nel 1832 Vincenzo acquistava al civico 53 sempre in via dei Materassai una dimora più grande e comoda di quella che il padre aveva preso in affitto oltre trent’anni prima: una casa con acqua corrente, due botteghe al pianterreno (una delle quale era adibita a caffetteria) più una rimessa e un magazzino.

La nuova abitazione era stata ampliata e ristrutturata, pronta ad accogliere Vincenzo e mamma Giuseppina, che vi si erano traferiti nel 1835. Rimaneva solo un problema non da poco: prender moglie, con la benedizione di Giuseppina. Vincenzo infatti, a voler essere sinceri, aveva intrecciato da qualche tempo una relazione con Maria Giulia Rachele Portalupi (1809-1871), una giovane milanese, trapiantata a Palermo per motivi di lavoro del padre.

La fanciulla, che aveva 24 anni, viveva in via della Zecca, con i genitori don Tommaso e donna Antonia Citeria e il fratello Giovanni. Vincenzo e Giulia si erano conosciuti al teatro Carolino nel dicembre del 1833 ed era stato amore a prima vista: avevano cominciato a frequentarsi assiduamente.

Vincenzo aveva 34 anni, era un uomo fatto, tuttavia non sembrava intenzionato a sposare la bella milanesina, nonostante l’arrivo di tre figli in quattro anni. Inutile dire che la scandalosa posizione della coppia e i figli nati fuori dal matrimonio davano adito a molti pettegolezzi nella Palermo di metà Ottocento: Vincenzo Florio era ormai un personaggio ben conosciuto in città.

Si diceva che malgrado Vincenzo andasse ormai per i quarant’anni, persisteva una prolungata e ostinata negazione del consenso (allora indispensabile) da parte di mamma Giuseppina. Nel novembre del 1835 era nata la prima figlia, di Vincenzo e Giulia, Angelina, riconosciuta all’anagrafe solo dalla madre, così come era avvenuto alla nascita della secondogenita Giuseppa nata nel 1837.

Il nome potrebbe far pensare forse a un tentativo di guadagnarsi la simpatia della suocera, da parte di Giulia tuttavia neppure allora il padre volle riconoscerla. La nascita del terzogenito, l’atteso erede maschio, nel dicembre del 1838, rendeva diversa la posizione di Giulia Portalupi agli occhi dei Florio. È significativo che per il bambino venne scelto il nome di Ignazio, dello zio che aveva fatto da padre a Vincenzo e il cui nome era ancora nella denominazione della Casa di commercio.

Diversamente dalle volte precedenti Don Vincenzo stesso, di professione negoziante (allora aveva altro significato e stava per commerciante e imprenditore), domiciliato in "via Matarazzari", si presentava presso l’ufficio di stato civile per dichiarare la nascita di suo figlio, avvenuta il giorno prima, il 17 dicembre 1838.

Almeno il riconoscimento era un atto che non aveva bisogno del consenso di Donna Giuseppa, ma neppure ciò riuscì a far ottenere nell’immediatezza a Giulia il matrimonio riparatore. Solo nell’ottobre 1839 Vincenzo trovò il coraggio di andare all’anagrafe per riconoscere anche le due bambine, Angelina e Giuseppina e soltanto il 15 Gennaio del 1840 la coppia convolava finalmente a nozze!

Intorno alle sei del pomeriggio, come si usava in caso di matrimoni riparatori, ebbe luogo il matrimonio civile. Giulia Portalupi, assente, era rappresentata per procura da don Lorenzo Lugaro, contabile della ditta Ignazio e Vincenzo Florio.

A sera inoltrata fu celebrato il matrimonio religioso, con la presenza di entrambi gli sposi, in chiesa, alla Kalsa, nella parrocchia di Giulia, probabilmente una cerimonia riservata, come il caso richiedeva, alla presenza di pochi intimi. Giulia non portava nessuna dote e Vincenzo non ritenne opportuno costituirle un dotario, nel caso rimanesse vedova. Nella folgorante ascesa di Vincenzo, Giulia costituiva solo uno spiacevole incidente di percorso.

I piccoli commercianti di Bagnara Calabra restavano comunque dei borghesi di modeste origini, anche se nel tempo si erano trasformati in facoltosi industriali e avevano cercato di elevarsi nella scala sociale. Come ebbe a dire il prof. Orazio Cancila, Vincenzo "era nato borghese, aveva sposato una borghese e avrebbe vissuto da borghese" fino alla fine dei suoi giorni; ma per il figlio Ignazio egli avrebbe realizzato un percorso diverso, che gli avrebbe permesso di inserirsi nel contesto più ampio dell’aristocrazia siciliana, attraverso il matrimonio con la nobildonna Giovanna D’Ondes Trigona.

Dopo le nozze, Giulia e i tre figli si trasferirono nella grande casa di Via Materassai, dove visse anche mamma Giuseppina, sino alla sua morte avvenuta nel 1862. La famiglia trascorreva gran parte dell’anno all’Arenella, nella villa dei Quattro Pizzi, accanto alla tonnara, fatta costruire da Vincenzo su progetto dell’amico Carlo Giachery.

Vincenzo inoltre nel 1839 aveva acquistato anche una villa settecentesca nella zona della piana dei Colli, per trascorrervi l’estate. Il Florio continuò a dedicarsi agli affari, mostrando straordinaria capacità e intelligenza: la fortuna gli arrideva e la sua vita fu larga di felici successi.

Nel 1832 Vincenzo aveva fondato a Marsala le Cantine Florio per la produzione del vino Marsala. In seguito acquistò diverse tonnare e diede inizio alla produzione di conserve per la pesca e l'inscatolamento del tonno, rivoluzionando l’industria ittica. Nel 1840 fondò la Società dei battelli a vapore e nel 1841 acquistò dai fratelli Isgrò la Fonderia Orotea.

Impiantò una filanda in un locale a ridosso del convento di S. Domenico a Palermo e sviluppo il commercio e l'industria dello zolfo. Fondò nel 1847, la Ignazio (il nome dello zio) e Vincenzo Florio per la navigazione a vapore dei piroscafi siciliani. Diede lavoro a migliaia di persone a Palermo e il 13 Marzo 1864 divenne Senatore del Regno d’Italia. Vincenzo Florio morì improvvisamente a 69 anni, a Palermo, l'11 Settembre 1868.

Alla sua morte il patrimonio dei Florio ammontava a 12 milioni di lire, l’equivalente di 57,4 milioni di euro odierni. (S.Requirez, Il Leone di Palermo, 2022). Giulia lo avrebbe seguito 3 anni dopo, nel 1871. Le spoglie di Vincenzo e Giulia riposano oggi nel cimitero di Santa Maria di Gesù, insieme ai loro discendenti, nella cappella di famiglia realizzata (su incarico del figlio Ignazio Florio) dall’architetto Damiano Almeyda.
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