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Matteo Lo Vecchio, sbirro del Papa e per giunta scomunicato

  • 12 dicembre 2004

Santa Ninfa e Sant’Oliva, tradizionali protettrici di Palermo prima di venire messe in qualche modo da parte dalle presunte ossa della Santuzza, non protessero abbastanza lo scomunicato che una sera di prima estate, nel 1719, cadde pesantemente ai piedi delle relative statue sulle balate del Cassaro. Giusto a cento metri dall’orologio della Cattedrale. Forse anche perché il caduto, cui due scopettonate a mitraglia avevano squarciato il petto, era Matteo Lo Vecchio, il più infame degli sbirri che da anni aveva servito, da rozzo doppiogiochista, tutti i padroni della città e dell’Isola. E che al servizio del Pontefice, aveva consegnato agli sgherri papali i religiosi che, per antico e regale privilegio, in Sicilia si consideravano sottratti alla giurisidizione del Vicario di Cristo. Per cui fu scontato, anche se non del tutto immaginabile, che il relativo funerale dell’indomani sarebbe stato il più bislacco e violento di qualsiasi altro prima e dopo quella data. Infatti la stessa sera dell’omicidio, il cadavere - che rimase con gli occhi spalancati perchè nessuno volle chiuderglieli, e con in volto la smorfia spaventosa dell’ultimo spasimo - fu messo a sedere alla bell’e meglio in una delle più economiche “sedie volanti” e condotto nello stambugio dove lo sbirro aveva casa, in un vicolo dell’Albergheria che ancora porta il suo nome.

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Successe così che rivestito dell’alta uniforme, per disposizione del suo ultimo protettore un certo presidente Antonio Nigrì, secondo il Villabianca, il feretro scoperto col cadavere dall’orrido ghigno e che aveva tra le mani un crocefisso malgrado la scomunica, cominciò a procedere con seria difficoltà per via dell’Albergheria. Dalla quale sarebbe giunto prima in via Maqueda, passando davanti la chiesa dell’Assunta, per essere infine tumulato nel camposanto dei monaci di Sant’Antonino. Ciò perché questi ultimi, avendo avuto dal Nigrì l’equivalente di circa dieci milioni di oggi, avevano chiamato la congrega della Sciabica che aveva messo a disposizione gli otto bastasi (niente a che fare con i vastasi odierni data l’etimologia dal verbo greco bastazomai, equivalente a portare e trasportare) che presero cassa e cadavere sulle spalle malgrado appunto il tumultuare di una gran folla i cui lazzi, sfregi e pernacchi, non promettevano niente di buono. Fu così che all’altezza dell’Assunta i bastasi fecero il primo tentativo di scaricare il feretro e di scappar via. Ciò che non riuscì per il drastico intervento dei membri della Sciabica. Per cui, circondati dal popolo ormai in tumulto per quelle inaccettabili esequie a Lo Vecchio, finì che tra pugni ,spintoni e male parole i becchini riuscirono a depositare lo sconcio cadavere davanti a Sant’Antonino. Ma la sorpresa dei pochissimi presenti rimasti amici di Lo Vecchio fu grande quando i monaci, malgrado la lauta ricompensa intascata, uscirono dal convento e con le tonache rimboccate e grossi randelli in mano si avviarono verso i becchini ingiungendo loro di portare quel coso infame a Sant’Antonineddu ‘u Siccu. Che era il cimitero dei poveri, recintato di canne all’incirca dove oggi si alza l’ultimo ponte ferroviario sopra l’Oreto, prima della Stazione Centrale.

Ma le cose si misero anche peggio pure là perché il romito, che era anche il custode delle spoglie dei palermitani ultimi della terra, si presentò addirittura armato di una specie di “trombone” - di quelli che si caricavano a mitraglia fatta di chiodi e pezzi di ferro - e chiarì definitivamente le idee ai “bastasi di cinghia” che dopo essersi guardati negli occhi attraverso i buchi dei cappucci se la dettero definitivamente a gambe lasciando il cadavere all’ingresso del modesto cimitero. I palermitanisti d’oggi raccontano che mani anonime, forse non del tutto pietose, scaraventarono in fondo al primo pozzo secco che trovarono il cadavere ormai nudo e perciò ancora più orribile di Matteo Lo Vecchio. Spogliato perfino dell’uniforme da sbirro nuova di zecca. In appresso, solo Leonardo Sciascia, nel 1969, sicuramente sconcertato da questa storia propose il dono di una rosa anche per Matteo Lo Vecchio. Lo scomunicato e cane che non conobbe padrone, come alla sua epoca in molti lo definirono. Una spoglia umana tuttavia, che da così lungo tempo dormiva “in fondo a un pozzo secco, accanto al cadavere dello Stato”.

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