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Il loro nome è quasi un esercizio linguistico: i segreti dei piccoli gioielli (dolci) di Delia

Questo dolce è il filo conduttore che unisce la storia del paese al suo paesaggio. Ce lo racconta chi realizza la ricetta originale, custode dei segreti di questo presidio Slow food

Giovanna Gebbia
Esperta di turismo relazionale
  • 4 luglio 2022

La Cuddrireddra

C’erano una volta i Vespri Siciliani, una dea mitica, un castello e un dolce dal nome strano e quasi impronunciabile che lega tutto questo in una storia, un percorso che ha un suo preciso sapore.

Siamo nel cuore della Sicilia rurale, qui si incrociano miti leggendari e riti pagani che si dipanano tra campi di seminativi, vigenti e colline arse dal sole, un viaggio dentro atmosfere ataviche e ancestrali che andiamo a scoprire nel territorio del piccolo paese di Delia.

Siamo nella cornice scenografica del nisseno, un paesaggio dove si disegnano campi di grano biondo e argentei uliveti, colline che degradano in pascoli e orizzonti che arrivano a toccare il profilo dell’Etna.

Anticamente si chiamava Petiliana o Petilia - così come riporta Vito Amico - il cui toponimo si trasforma nell’attuale Delia per la presenza presumibilmente di un tempio dedicato alla dea Diana.

Affacciati sulla Piana di Gela c’è la rupe sulla quale resta l’antico forte normanno "lu castiddrazzu" sul monte detto della Croce, dove la tradizione vuole che il dolce che risponde alla Cuddrireddra sia stato ispirato alle castellane che lo abitavano.
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Questo mini viaggio quindi segue un dolce filo conduttore che unisce insieme la storia del paese al suo paesaggio, raccontato da chi promuove la ricetta originale e ne custodisce la lavorazione rappresentando il presidio Slow Food di cui il dolce è stato insignito nel 2004.

A partire del nome per la cui pronuncia ci si costringe ad un vero e proprio esercizio linguistico per azzeccare la giusta dizione, ci vuole un po’ a pronunciare correttamente “Cuddrireddra” senza fare rabbrividire i deliesi, e la cui origine risalirebbe al periodo dei “Vespri Siciliani” del XIII secolo.

A parlarcene è Gioacchino Lionti marito di Filomena Alaimo detta “Melina” dalle cui mani esperte vengono fuori questi piccoli gioielli di impasto dorato, il cui segreto è tanto nella ricetta quanto negli ingredienti. Lui si definisce lo "zingaro della famiglia" quello che viaggia per far conoscere quello che non è solo un prodotto, una storia, una ricetta passata di madre in figlia che ha resistito fino ad oggi, della quale Melina è la custode.

«Era usanza per le massaie farla in casa, tutte le donne sapevano come e non appena una iniziava le altre se ne accorgevano subito per il profumo che si sprigionava nell’aria e invadeva i vicoli, seguendola a ruota.

Ognuna aggiungeva però un suo ingrediente particolare che la rendesse diversa dalle altre e di casa in casa si offriva ai vicini un tanto per amicizia ma anche come una piccola gara a chi faceva la più buona!

E se per un verso questo ha contribuito a mantenere la tradizione, da un altro ha messo a rischio la ricetta originale antica quanto semplice e di pochissimi ingredienti: grano duro rigorosamente dei nostri grani, strutto dei nostri allevamenti, uova di galline nostrane e allevate a terra, zucchero, scora delle arance locali, cannella e un goccio di vino rosso. Nulla di più e niente altro».

Nella lavorazione rimane il vero segreto, un’abilità tramandata nella quale si usano un fuso di legno insieme ad un pettine da tessitura, esattamente quello che nel telaio stringe la trama all’ordito, e che in sequenza alla fine realizzano la forma che andrà fritta in olio di oliva e diventerà la corona ispirata alle castellane che abitavano l’antico maniero al quale abbiamo già accennato.

Tornando alla storia del paese questa si intreccia con quella delle dominazioni e ancora prima con la preistoria, l’avvicendamento delle famiglie nobili che l’hanno posseduta fin dalla sua fondazione per volere del barone Gaspare Lucchesi alla fine del XIV secolo.

Un luogo fortificato come tanti in Sicilia, la storia è quella del Castello Sambuci, distrutto e ricostruito più volte fin dal medioevo detto “lu castiddrazzu” a difesa delle coste meridionali dell’isola, citato dallo storico geografo di Re Ruggero II Al Idrisi autore del primo atlante geografico, il famoso “Libro di Ruggero”.

A Delia non manca nemmeno una leggenda che lega il castello al mito di un tesoro nascosto di cui si racconta, detto appunto “lu tesoru di lu castiddrazzu”, che suppone all’arrivo dei Normanni i saraceni nascosero in una delle segrete del forte le ricchezze accumulate.

Ed ecco alcune curiosità interessanti: il primo restauro del castello risale al lontano 1878 quando questo venne annoverato tra i monumenti del Regno e usufruì di un primo intervento per consolidarne la struttura. Articolato su in quattro livelli, geograficamente è costruito su uno sperone roccioso calcareo naturale e vicino alla Valle del Salso, un punto importantissimo per la presenza del fiume che consentiva gli scambi commerciali nell’entroterra.

A guardarlo emana una grande emozione rimandando ad un passato antico ma ancora vivo tra le sue pietre, qualcosa di misterioso che lega l’uomo alla natura.

Delia durante l’epoca romana, ricadeva nella proprietà del nobile Petilio e veniva attraversata dalla strada che univa Catania ad Agrigento chiamata quindi Praedia Petiliana e percorsa da Antonino Caracalla.

Qui si trovava la stazione detta “Statio” luogo di sosta e di soggiorno per il cambio dei cavalli e riposo dei viaggiatori, ma anche di controllo dei territori. I deliani hanno sempre chiamato "Castieddru" l’attuale piazza Castello dove sembra si trovassero il casale ed il castello ovvero l’antico "castrum".

Merita una visita il paese con le antiche chiese, come quella del Carmelo e di Santa Maria di Loreto, che tra medioevo e barocco disegnano il profilo artistico e sacro del luogo.

E alla fine dell’itinerario assaporare un bicchiere di passito o di moscato accompagnato da una “Cuddrireddra” perfetta chiusura di una giornata nel cuore del nisseno entroterra siculo.
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