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L’oltre-espressionismo di luce e abisso nella pittura di Incardona

  • 5 febbraio 2007

La pittura di Marco Incardona (1961-1999), artista palermitano, ad uno sguardo fugace cattura, immobilizza con i suoi colori aspri e intensi e con un ductus fatto di tormento e azione. Ma dietro un quadro c’è sempre un’artista, e soprattutto un uomo. Leggendo il catalogo della mostra attualmente allestita a Palermo alla galleria San Saverio, in via G. Di Cristina 39, fino al 22 febbraio (visitabile dal lunedì al venerdì 9-14;16-20, ingresso gratuito) dal titolo “Marco Incardona. Olii e disegni. Ancora luce”, - organizzata dall’Ersu di Palermo con il patrocinio dell’Assessorato ai Beni Culturali, curata da Silva Montera e Rodolfo Loffredo e allestita da Vincenzo Ognibene, presidente di Azul (associazione che sin dalla scomparsa di Incardona si occupa di divulgare le opere dell’artista) - si scopre con grande sorpresa e anche con un po’ di commozione come il ricordo lasciato da questo artista negli occhi e nella mente di chi l’ha conosciuto e frequentato sia intenso e profondo proprio come i suoi dipinti, che non pretendono di descrivere o raccontare, ma che sono piccoli frammenti di una vita vissuta alla ricerca di un sottile e inesaudito compromesso di calma e pace. L’esposizione ripercorre con coerenza le fasi della breve ma prolifica attività artistica di Incardona, esponendo una cinquantina di tele e disegni.

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Le opere del primo periodo, ancora fortemente intrise di un ritorno all’Espressionismo, che negli anni Ottanta si diffondeva in Italia nelle forme transavanguardistiche e che in Germania mostrava nella corrente dei Nuovi Selvaggi (Neue Wilden) il rinato interesse per la figurazione, esibiscono un approccio individuale e “anarchico”, che si nutre di luce e ombra, di cromie fosforescenti e acide e la cui «narrazione pittorica opta per il travestimento, la finzione, la parodia, per una teatralizzazione disarmata, quasi una confessione a cui temi e figure forniscono il limite e la cornice» (Sergio Troisi, testo in catalogo della mostra). All’ingresso tre ritratti dai colori lividi, dagli accostamenti antinaturalistici di verdi, ocra, rossi, blu, neri e bianchi, inquietano con sguardi e pose bloccate; uno in particolare, quello dell’uomo che si affaccia da un parapetto mostra nell’espressione l’incertezza e lo sgomento dell’essere umano che si affaccia a una vita senza sapere cosa lo attende. Le pennellate vibrano al contatto con l’olio pastoso, quasi a sottolineare l’impossibilità di una certezza anche lì sul quadrato della tela. Il corpo è al centro dei dipinti di questo periodo, anzi sarebbe più giusto affermare che la figura umana è decentrata, tagliata, anamorfizzata, per quella particolare caratteristica che mostrano alcuni fisici tormentati rappresentati per frazioni e non per intero. Così il sanguigno costato trafitto di San Sebastiano si offre al margine della tela, espunto e spinto da brevi pennellate rosso-blu organizzate attorno alla bisettrice di un dardo celeste, quasi ad affermare l’impossibilità di rappresentare figurativamente la grandezza morale del martire.

Le opere degli anni Novanta mostrano un’evoluzione di linguaggio e di temi. Adesso è il paesaggio urbano il protagonista: un paesaggio sgangherato, dalle prospettive distorte, dai colori d’abisso, dalla pennellata a tratti materica e convulsa e a tratti fluida e intimistica, quasi di sironiana memoria. Il mercato storico della Vucciria, dove Marco Incardona si trasferirà per un breve periodo, diventa il teatro di immagini che raccontano di sere al chiaro di luna su tetti trasformati in cimiteri da antenne televisive, o che forse non hanno l’ardire di narrare nessuna storia, ma soltanto di attirare l’attenzione su un albero-grondaia sul prospetto di un palazzo storico, sul gesto quotidiano di carni da macello lacerate o su figure brumose che si perdono nella notte. Ma la maturità artistica di Incardona raggiunge il suo acme quando incontra il mare, come se l’eternità che Rimbaud, uno dei poeti amati dall’artista palermitano, trova nell’unione tra mare e sole, Marco la scoprisse nella linea dell’orizzonte che divide i rettangoli di cielo e mare, nella solitudine imponente di vecchi relitti, nel turbinio e nella schiuma di onde accarezzate dal libeccio o dal maestrale, nelle suggestioni dei racconti del “Moby Dick” di Melville o de “Il vecchio e il mare” di Hemingway. La superficie pittorica adesso appare sfrondata dell’andamento grumoso e materico degli anni precedenti, soltanto la pennellata svirgola per dare l’effetto del flusso marino, i toni si sono fatti sommessi nei grigi plumbei, nei bianchi opalescenti e nei blu oltremare.

La nave, metafora dell’essere umano in continuo viaggio, adesso si erge solitaria e arenata, e sembra assicurarci che lì nella condizione liminare tra mare e terraferma ha trovato un po’ di pace e riposo, e forse Marco nell’ombra di spalle come un novello Achab ci osserva, ormai «immerso nel poema del mare che, lattescente ed infuso d’astri, morde l’acqua turchese» (A. Rimbaud). Marco Incardona, nato a Palermo nel 1961, è morto prematuramente nel 1999. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti della sua città, ha iniziato la sua attività espositiva nel 1988, con “Phoenicusa”, mostra allestita all’Opera Universitaria di Palermo. Da allora ha partecipato a numerose collettive ed ha tenuto diverse personali, l’ultima della quali “Orizzonti ed altre storie”, nel 1999, alla Libreria del Mare, a Palermo. Marco Incardona ha diretto il centro culturale Priapo di Monreale ed ha insegnato Pittura all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Il catalogo della mostra contiene interventi critici di Marina Giordano e Sergio Troisi, e testimonianze di Alessandro Rais, Toti Garraffa, Rodolfo Loffredo, Silvana Montera, Vincenzo Ognibene.

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