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"Musca, musca, a cu parra abbusca": il detto siciliano che dava il via a giochi (spietati)

Erano gli anni di tappine, cucchiai di legno e faccia al muro dietro la lavagna. Anche se fosse entrato il Papa in persona, dal quel momento in poi era vietato parlare

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 25 marzo 2024

Una scena da "Così è la vita" di Aldo, Giovanni e Giacomo

”Musca, musca, a cu parra abbusca! Musca un c’è e abbusca Vicé… Vice è nu Duca e abbusca Gianluca… Luongu, spilluongu, figghiu i p#%&*@ a cu è u chiù luongu!"

Sogni, piccoli squarci di morte. Come li odio. Le lancette segnano l’ora del maligno, fuori piove, il vento ulula tenebroso e la tv passa le repliche di “Don Matteo 12”. La medicina definisce “misofonia” quel disturbo che provoca avversione nei confronti di un suono specifico: masticazione, deglutizione, rumore di passi, eccetera eccetera.

Nel mio caso è il ticchettio dell’orologio, specie nel cuore della notte… eppure non riesco a farne a meno, un po’ come la malinconia. Improvvisamente vengo colto da un attacco di "scopofobia". No, almeno questa volta Pornhub non c’entra.

La parola viene da “scopéo" e "phobos", ovvero la paura di essere osservati. Deve essere stata colpa della foto di classe di 5° elementare che tengo sullo scaffale della libreria. A quel punto il flashback tetro e traumatico è inevitabile e mi inghiotte nelle sue viscere.
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Sono gli anni '90, è quasi ora di andare a scuola, la stanza torva e buia è quella della buon'anima di zia Agatina. La riconosco dai crocifissi, dal ghigno delle bambole sedute sulle poltrone, e dai mille santini che mi fissano e sembrano deridermi, soprattutto sant’Ignazio da Loyola.

Sul credenzone, illuminata da un lumino funebre, ci sta lei, la foto di Gesù che ovunque ti sposti continua a guardarti. Non la giro perché temo ritorsioni dal mondo dei morti. Ecco da dove viene la mia scopofobia.

Sono anni tortuosi. Anni di tappine volanti, cucchiai di legno fatti di faggio della Foresta Nera, di maestre indemoniate riunite in inquietanti sabba, del necronomico libro maledetto chiamato “Zanichelli”, di castighi faccia al muro dietro la lavagna.

I bambini indossano sordidi grembiuli, color blu camice di bidello, e vengono nutriti esclusivamente di ditalini al pomodoro, pastina al formaggino, sogliola fritta e panini col salame ungherese.

Davanti la presidenza il girone dei dannati, davanti l’entrata della classe la scritta: “lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. In questa desolante terra di mezzo, gli studenti, disperati, tentano di scavarsi una via di fuga sotterranea, avvalendosi di un’antica leggenda, secondo cui la parte blu della gomma Pelikan, e che dovrebbe in teoria cancellare l’inchiostro, è in realtà in grado di bucare i banchi e scavare il granito.

Il compagno Carollo ci raccontò che i famosi Qanat di Palermo furono scavati in questo modo e a tale scopo.

L’ambiente lugubre e vetusto delle classi è atrocemente appesantito da tracce di ex studenti, che hanno lasciato pezzi della loro esistenza appiccicando consumate e impietrate gomme da masticare e cozziche del naso, ora nel sottobanco, ora sotto la sedia. Ogni tanto qualche timorato tenta di nascondersi nei bagni a recitare le sue preghiere nella speranza che gli spuntino le ali come Icaro.

«Ucci ucci, sento odor di cristianucci…». È con queste parole che padre Attilio entra in classe dopo la ricreazione per l’interrogazione a tappeto. Carollo sa che è giunta la sua ora e mi passa uno stropicciato foglietto con le sue ultime memorie.

"Rintocca il coprifuoco e muore il giorno, sul prato la mandria erra, lenta e mugge, a casa torna, stanco, il contadino, lasciando a me e alle tenebre il mondo".

Minchia, un poeta Carollo!

È proprio all’interno di questo regime punitivo e panottico che i giovani condannati dell’epoca erano costretti ad inventarsi giochi perlopiù cinici, spietati e machiavellici. Giochi che per loro innata costituzione prevedevano il fatto che qualcuno perdesse e venisse punito.

Sebbene il cuor ferito voglia tenersi ad ogni costo lontano da tali amari e pungenti ricordi, è pressoché impossibile serrar le porte della rimembranza al "Musca Musca".

Cercherò di essere più esaustivo in questi termini.

Allorquando, per esempio, si stava verificando in classe una qualche informale situazione di gazzarra, ove i presenti stavano serenamente allietandosi ciarlando in totale convivialità, ecco che dal mucchio amorfo s’elevava un grido di battaglia che richiamava i presenti a ricomporre le righe, ma sopra ogni cosa al religioso e marziale silenzio.

Anche se fosse entrato il Papa in persona, dal quell’enunciato in poi era vietato parlare. Mille erano i modi in cui si cercava di portare il penitente nella strada del peccato inducendolo a rompere il patto e subire quindi penitenza.

E infatti, quando alla fine qualcuno, inavvertitamente, o costretto da causa forza maggiore, pronunciava anche solo una parola, veniva condannato alla pubblica gogna, per essere più precisi alla “cappotta”, anche chiamata “boccia”. La condanna consisteva nel mettere al centro della calca il reo e scatenargli sulla schiena una valanga di scoppoloni.

In inverno, nei mesi più freddi, si poteva assistere alla cappotta col giubbotto, che veniva lanciato addosso al colpevole, al fine di rendergli irrintracciabile la provenienza delle scoppole.

Non di silenzio, ma di altezza si trattava quando si giocava a "luongu spilluonghu”. Il gioco partiva sempre da un urlo improvviso e inaspettato, che però recitava così: "Luongu, spiulluongu, figghiu i p#%&*@ a cue è chiù luonghu!”.

Questa volta non importava il mutismo, quanto evitare ad ogni costo di essere il più alto della classe. Succedeva il Viva Maria, e in men che non si dica erano tutti accovacciati o sdraiati per terra, anche in questa occasione sperando che qualcuno commettesse il passo falso. Inutile dire che la punizione era sempre lei: la terribile cappotta.

Ordunque, tra lividi e risate beffarde, il tempo passava così, fin quando non suonava la campanella e arrivava per ognuno di noi il momento di timbrare il cartellino e tornarcene nelle nostre abitazioni, felici che un altro sporco giorno se ne fosse andato.

Era proprio all’uscita della scuola, tra il portone e il cancello perimetrale, che quell’urlo di battaglia s’innalzava al cielo per l’ultima volta: “Curnutu è l’ultimo!”.

Quando sembrava che tutto fosse finito, cominciava la folle corsa per non arrivare ultimi al cancello e portare quindi a casa salva la dignità, evitando l’ennesima cappotta su una schiena già martoriata dagli zaini di tonnellate. Forse porsi sotto l’ala di Marte era l’unico modo per evitare la guerra, o forse, come diceva Carollo: “si vis pacem, para bellum”…

Minkia un poeta, Carollo.
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