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Come si viveva nei palazzi nobiliari di Palermo: i fasti di un'epoca in cui apparire era tutto

Le antiche dimore svelano le esigenze di un mondo che, pur avendo esaurito il suo compito, rimane testimonianza di un periodo storico. Ce lo spiega l'antropologa Cedrini

Stefania Brusca
Giornalista
  • 14 aprile 2022

Palazzo Butera a Palermo

Studiare le antiche dimore di Palermo vuol dire comprendere che non sono semplicemente espressione di stilemi legati a un certo periodo storico. «Sono le necessità dell’uomo, la maniera di vivere, che determinano come dovevano essere organizzati gli spazi all’interno di un’abitazione».

Quindi non deve sorprendere che a parlare dei palazzi nobiliari dei quattro mandamenti di Palermo nel ‘700 sia un’antropologa come Rita Cedrini, che pure ha insegnato alla facoltà di Architettura.

La professoressa si è occupata di dimore storiche del ‘700 per 14 anni, insieme al principe di Raffadali, che curava la parte dei blasoni, dei retaggi tipici dell’araldica. Il loro lavoro è racchiuso in due volumi, editi nel 2008, “Repertorio delle dimore nobili e notabili nella Sicilia del XVIII secolo”.

«Il palazzo, è un microcosmo proiezione del macrocosmo sociale – spiega -. La divisione in piani stabilisce chi prende le redini del casato, ad esempio. Per quanto riguarda la servitù, chi sta in cucina non può mettere in ordine le stanze. Dalla scuderia, alla cucina fino all’intero palazzo, tutto era strutturato secondo una precisa funzione, ognuno aveva un suo posto e non poteva cambiare status».
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Un altro esempio lampante della divisione gerarchica della società del ‘700 è il modo in cui era strutturato l’ingresso dei palazzi nobiliari, la sala dell'accoglienza che fungeva da smistamento per gli ambienti interni. «C’erano diverse vie d’accesso e si entrava all’interno da un’apertura particolare o da un’altra a seconda del rango – spiega l’antropologa -. Ad esempio se si era in attesa di essere ricevuti dal padrone di casa, si aspettava un po’ di tempo prima di essere introdotto nell’ambiente della riunione».

Sostare lì infatti faceva capire “il peso” del padorne di casa. A palazzo Butera, nel grande ingresso, c’erano tutti i feudi della famiglia, le rimesse della campagna, un modo per far capire meglio quanto era potente la famiglia proprietaria della dimora. Poi c’erano «questi grandi affreschi - aggiunge – con questi imponenti personaggi che sovrastavano dall’alto chi sostava all’entrata del palazzo».

Un altro aspetto di cui queste dimore sono specchio è il concetto del bello, che all'epoca era demandato alla quotidianità. Ogni spazio, ogni oggetto aveva una sua funzione, una sua intrinseca bellezza.

Per l’ora del pranzo, ad esempio, non si usava sempre la stessa sala nel ‘700. Tutto veniva deciso in base al numero di commensali presenti e del loro prestigio. Queste si distinguevano in base al colore destinato loro: c'era la sala azzurra, gialla, rossa. «E quando si avevano ospiti – spiega ancora - si diceva alla servitù, attraverso il monsù, quale stanza allestire per i commensali».

Un altro posto che aveva una collocazione particolare all’interno dei palazzi era l’alcova. «Ci meravigliamo molto – prosegue la professoressa Cedrini - che entrando nelle dimore di quel periodo troviamo l’alcova, quando dobbiamo ricordare che il letto matrimoniale è un prodotto della rivoluzione francese. I nobili dormivano ognuno nella propria stanza e quando il padrone di casa voleva andare dalla signora si faceva annunciare».

L’alcova era un letto da una piazza e mezzo e la stanza in cui si trovava aveva due porticine laterali, «dei punti di fuga, di passaggio, ai quali si poteva accedere dai corridoi ad un'altra parte della casa, attraverso una via poco nota. Un altro tassello importante che definisce come in quell’epoca apparire era essere, e che ognuno aveva un suo posto».

La docente, che da poco ha tenuto un seminario sulla Palermo all’ombra dei palazzi nobiliari dei Quattro Mandamenti svela anche un retroscena che richiama i tempi floridi della città, una ricchezza di cui poco si sa. «C’è una parte dei quattro mandamenti trascurata, di cui si conosce ancora molto poco, ed è l’antico quadrilatero dell’Argenteria – afferma Cedrini -.

In realtà era la parte più importante di Palermo, al centro tra la Cala, con il via vai delle navi, e le logge, dove in realtà si commerciava con le banche. Queste somme venivano convertite prima di partire dai “battiloro”. Si compravano gli oggetti preziosi, come il corallo di Trapani e l’argento. E questo spiega perché ogni museo del mondo ci sono oggetti dell’artigianato orafo siciliano».

La professoressa fa anche parte del comitato della chiesa di Sant’Eligio, che sorge alle spalle di piazza San Domenico, dove anticamente gli argentieri punzonavano i prodotti che realizzavano, davanti alla Madonna delle Grazie. Proprio lì continua la tradizione della messa celebrata il 23 giugno, in onore del patrono degli orafi e degli argentieri.
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