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L’acqua perduta di Palermo: se le alluvioni del Papireto possono insegnarci qualcosa

Le reti fognarie e il controllo del sistema idrico sono più capillari, ma il rischio idrologico esiste e il capoluogo è stato sottoposto varie volte a grandi alluvioni

Aurelio Sanguinetti
Esperto di scienze naturali
  • 17 maggio 2023

Il fiume Oreto

La lunga storia di Palermo si lega alla gestione secolare delle sue acque. Per secoli infatti le diverse popolazioni che hanno governato la città (fenici, romani, arabi, normanni, francesi e spagnoli) hanno dovuto affrontare le piene dei suoi fiumi e le alluvioni provocate dalla grande concentrazione d’acqua che si riversava in strade dalle montagne.

E proprio per questo, nel tentativo di arginare i potenziali disastri che potevano arrecare al capoluogo i vari Kemonia, Papireto come anche l’Oreto e i piccoli rigagnoli distribuiti nelle campagne, che durante l’inverno o gli acquazzoni estivi potevano esplodere e divenire delle vere trappole liquide, ecco che gli amministratori della città si sono spesso propagati per migliorare le fognature, costruire canali (per esempio i famosi qanat), erigere ponti, difendere i quartieri e rendere vivibili e attraversabili i percorsi fluviali, di modo anche di limitare le eventuali ostruzioni composte dalla sporcizia e da altri rifiuti.
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In un’epoca di progresso tecnologico, risulta però paradossale come negli ultimi secoli la cittadinanza palermitana non sia riuscita più a gestire l’acqua del suo territorio, dopo che per oltre mille anni ha rappresentato un esempio per tutti gli studiosi di ingegneria idraulica, sin dai tempi di al-Idrisi.

Se però oggi osserviamo così tante alluvioni all’interno della nostra città, con molteplici aree che si allagano o si colmano di fango – dal quartiere di Mondello ai sottopassi di Viale Regione, da Via Imera a Danisinni – ciò non è dovuto solo al cambiamento climatico e alla maggiore intensità dei fenomeni metereologici.

Tale disastro è anche conseguente al perdurante abbandono o cementificazione delle antiche vie di sfogo, che permettevano alle acque provenienti da alcune aree delle città di riversarsi nei naturali corsi fluviali, oggi quasi inesistenti.

Considerando per esempio il caso del Papireto, che è stato interrato nei secoli scorsi e che offe oggi i maggiori problemi di contenimento, visto che le sue acque solitamente "straripano" dal sottosuolo, allagando alcune aree del centro storico, sono poche le persone presenti in città che sappiano spiegare perché, a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, tale fiume fu utilizzato come discarica delle macerie risalenti alla Seconda guerra mondiale, insieme al Foro italico.

Una scelta particolarmente infelice, che tappò il naturale sbocco verso il mare che gli antichi borbonici avevano mantenuto, affinché il fiume non esondasse prima di arrivare alla Cala, e che è parte della causa dei mali che oggi affliggono via Imera e i pressi di Porta Nuova.

Per quanto riguarda invece la popolazione, la maggior parte, quando sottoposta al ricordo dei vecchi fiumi e al possibile arrivo di grandi fenomeni temporaleschi, come quelli che si sono alternati nel corso degli ultimi giorni, sembra porsi sempre la stessa domanda: c’è davvero la possibilità che Palermo venga sommersa in futuro dall’acqua e dal fango? La risposta a questa domanda probabilmente non è unica, affermano gli esperti.

Da una parte le reti fognarie e il controllo del sistema idrico sono più capillari, ma il rischio idrologico a Palermo esiste e il capoluogo è stato sottoposto varie volte a grandi alluvioni, che hanno colpito recentemente alcuni dei suoi quartieri principali.

Esempi famosi sono le alluvioni del 1931 e del 1954, dove le acque confluite nel Canale Passo di Rigano, nel Kemonia e nel Papireto strariparono in più punti, allagando corso Olivuzza, via Perpignano, Via Roma, via Noce – che divenne un vero e proprio fiume in piena – la zona dell’Acquasanta, del carcere Ucciardone, della Vucciria e del porto.

Ovviamente per rispondere a queste vere e proprie "piene", gli amministratori locali dell’epoca tentarono di migliorare la situazione, realizzando un nuovo canale – quello di Boccadifalco - nel tentativo di migliorare la condizione idrografica della città.

Tuttavia con il successivo Sacco di Palermo e il peggioramento della situazione nelle "campagne", ora sostituite dai diversi quartieri periferici, come lo Zen e le estremità occidentali di Brancaccio, è noto come quest’aree siano quasi del tutto prive da fognature efficienti e vittime di diversi allagamenti.

Se però dobbiamo considerare il futuro, ricollegandoci ai dati scientifici che prevedono una progressiva desertificazione della nostra isola e una cronica mancanza d’acqua, è davvero auspicabile che la città venga nuovamente sommersa dall’acqua dei suoi fiumi?

Probabilmente saranno una combinazione di fenomeni e fattori a spingere prima o poi a osservare nuovamente questo fenomeno, chiariscono gli studiosi.

Nel suo libro “Palermo e l’acqua perduta”, il professore Valerio Agnesi ha infatti dimostrato che la natura stessa del rapporto dei palermitani con la loro acqua è conflittuale e che i casi di maggior intervento spesso hanno alterato la stabilità idrologica della piana di Palermo, non sempre in modo positivo.

Nella maggioranza dei casi le alluvioni che hanno colpito la Conca d’Oro erano il frutto di fenomeni eccezionali, a cui la cittadina rispondeva con cattive infrastrutture ed impreparazione. Tali fenomeni metereologici, per quanto rari, erano infatti in grado di mostrare tutte le pecche di un sistema urbanistico che si è sviluppato senza raziocinio e controllo, a partire dagli ultimi anni del Diciannovesimo secolo.

E ora che l’intera piana di Palermo è ormai occupata dai palazzi, l’aumento occasionale delle precipitazioni dimostra come in passato che la città urge di molteplici progetti.

Nuove strutture che se da una parte possono migliorare il sistema fognario e diminuire il rischio che il Kemonia e il Papireto esondino di nuovo dai loro canali interrati, dall’altra possano dare anche uno spazio vitale ai percorsi fluviali rimasti (l’Oreto), di modo che la natura possa limitare il pericolo di subire dei danni ingenti per colpa delle precipitazioni.

E in un contesto dove le precipitazioni diventeranno sì più rare, ma anche più violente, prevenire la salute dei percorsi e delle nostre riserve d’acqua sarebbe opportuno, fuori come dentro le città.
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