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La Sicilia e "l'accompagnamento" al morto: una (spietata) tradizione quasi da ridere

Quando le veglie funebri e le visite ai malati diventavano gli unici momenti che distoglievano dalla monotonia quotidiana e gli unici "viaggi" ammessi erano questi

Giovanna Caccialupi
Perito chimico industriale
  • 5 agosto 2023

Veglia Funebre (foto di Julio Romero De Torres)

Per una atavica e truculenta tradizione, i miei familiari non mi hanno mai risparmiato visite ai morituri, veglie ed accompagnamenti.

Erano questi gli unici momenti che ci distoglievano dalla monotonia quotidiana, anche perché la mia famiglia, sempre presa dal lavoro nei campi non conosceva proprio il significato della distrazione, del divertimento.

Il paese non offriva evasioni, tranne i pettegolezzi, il cinema la domenica, il ballo in piazza a carnevale e la tombola a Natale insieme ai parenti, ma noi non potevamo partecipare perché secondo nonna Peppa quelle erano i tentazioni du demoniu, che portavano inesorabilmente alla perdizione dell’anima.

E quando zio Filippo che viveva nel paese vicino, ci invitava a trascorrere la domenica a casa sua, la nonna Peppa comincia a snocciolare tutte le insidie, gli incidenti, le disgrazie che possono capitare a chi viaggia.

Gli unici viaggi che ammetteva senza elencare pericoli, erano quelli per andare dai dottori, dagli avvocati e dai malati.
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Naturalmente venivano presi in considerazione solo i malati senza speranza di guarigione, e tutte le volte si seguiva un preciso copione, sempre lo stesso. Appena avuta la notizia della grave malattia si andava a trovare il malato, tutti i giorni alla stessa ora e con il vestito della domenica.

Ricordo ancora le stanze in penombra, i respiri affannosi del malato, nomi di malattie e sintomi vari sussurrati. Ricordo anche i pizzicotti di mia madre, quando non mi volevo avvicinare per baciare il morituro: la durata dell’agonia la si poteva misurare dai lividi sulle mie braccia.

Cominciai così a ringraziare coloro che morivano di morte improvvisa, almeno in quel caso prendevo solo due pizzicotti, uno quando arrivavo alla veglia funebre e l’altro prima che chiudessero la salma nella cassa.

Preferivo anche coloro che invece di agonizzare in casa, agonizzavano in ospedale a Messina, i pizzicotti diminuivano perché data la distanza e la spesa del viaggio si poteva andare solo una volta la settimana, in più si poteva fare un viaggio senza i catastrofici timori della nonna Peppa e nostro nonno ci comprava sempre qualche giocattolo ed un enorme vassoio di arancine da “Nunnari”.

A morte avvenuta ed in questo caso preferivo che fossero dei conoscenti, non per motivi affettivi, ma perché la morte di un parente significava dover indossare vestito, calze e foulard neri per un periodo che variava secondo il grado di parentela.

Mentre durante ” l’agonia “ tutto si svolgeva fra sussurri e bisbigli, subito dopo il trapasso gridavano tutti, qualcuno correva, non si sa verso dove, ma tutti lo rincorrevano per fermarlo e sistemarlo su una sedia soffocandolo con confortanti frasi fatte.

Sempre le stesse.

Apparentemente quello si calmava, e appena gli altri mollavano la presa ecco che si rialzava per scappare e tutti dietro per ripetere infinite volte la stessa scena. I “grandi” intenti a collaborare con la famiglia funestata dal lutto, mi parcheggiavano su una delle sedie disposte in cerchio con al centro un lettino che doveva accogliere la salma.

Oppure la salma c’era già, ed io restavo ore ed ore a guardare un corpo immobile, dentro un vestito che puzzava di naftalina, per anni ho creduto che quello fosse l’odore della morte.

Quelli che entravano baciavano la salma e tutti i presenti, infine con voce flebile chiedevano: - ma comu fu?

E il “comu fu” veniva raccontato, ripetuto tante volte quante erano i visitatori.

Durante la fase notturna della veglia, solitamente sonnecchiavano tutti, le fiammelle delle candele tremolavano nel buio dando movimento alle ombre, rendendo spettrali anche i volti dei vivi. I congiunti del defunto sceglievano una frase che all’inizio urlavano e poi ripetevano come un lamentoso canto per giorni e giorni.

La più frequente era: Picchì, picchì ti inni isti? Picchì mi lassasti?

Altri erano più originali:

- Ierunu du jorna ca non mangiava! A diunu sinni iu! Chi ti mancava u pani?

- Picchi mi facisti spenniri ddi beddi soddi pi accattariti u cappottu novu? Io ora chi mi nni fazzu?


Quelle erano anche occasioni per incontrare conoscenti e parenti con i quali non si aveva una assidua frequentazione, non essendoci invito, incontravi anche quelli che non ti invitavano ai matrimoni, battesimi.

Il giorno dopo, in chiesa e durante la processione verso il cimitero coglievo l’essenza di quei momenti che come mi aveva detto Don Onofrio, l’insegnante di catechismo: “il funerale è una cerimonia che serve ad onorare la memoria del defunto”.

- Ma chistu, giustu ora avia a moriri? Stesi tanti jorna tra a vita e a morti! Puteva stari nautri du Jorna accussì io mi fineva di cogghiri alivi!

- Nui vìnnumu u stissu, macari ca iddi non vinnunu quannu fu di me maritu, accussì ci damu u schiaffu murali e ci facemu vidimi ca semu superiori!

- Mi aviti a cridiri cummari! Nta dda casa non c’erunu mancu un paru di cosetti novi! Ora dicu io, sai ca to maritu po’ moriri da un mumentu all’autru, ca ccatticilli i robbi pa motti! E u vestitu! Ci misunu chiddu di quannu maritau a so figghia dudici anni fa! e non fu mai lavatu na vota!

- Possibili ca nun ci nisciu mancu na lacrima? Pari ca ci muriu un puddicinu!

- E chistu pi moriri giustu sta jurnata di friddu scattau? -

Ma picchi u figghiu du mottu camina in secunna fila? Picchì non sta a latu di so matri? E so niputi picchì non avi u fazzulettu niuru in testa?

- Vaddati cummari chi brutta tenda avi donna Minica a finestra!

- U vidistu a don Vincenzu, pari ca nenti fussi! - Ma i parenti du latu da mugghieri comu mai non sannu vistu?

- U sapistu ca a figghia di Lucia a ”miccera” è ncinta? E u bellu è ca non si sapi di cui!

- Vaddati vaddati...
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