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"A Batteria" ai piedi di Monte Pellegrino: perché (all'Arenella) si chiama ancora così

Dove scorgi il primo tornante della strada che sale al santuario, poco sopra l’inizio del Cimitero dei Rotoli, esiste un manufatto risalente ai tempi della guerra

Toni Gagliano
Consulente finanziario
  • 4 ottobre 2023

"A' Batteria" a Monte Pellegrino

Alle pendici di Monte Pellegrino , dove c’è il primo tornante della strada che sale al santuario, poco sopra l’inizio del Cimitero dei Rotoli, esiste un manufatto risalente ai tempi di guerra, non saprei se databile con la Prima o con la Seconda Guerra Mondiale.

Si tratta di un bunker, o casamatta, in cemento armato dal quale si domina quel tratto di costa prospiciente la borgata Arenella. Per tutti noi abitanti del quartiere il suo nome è ‘A Batteria, derivante dal fatto che, impropriamente, si pensava fosse adibita come postazione di difesa contro le incursioni aeree e, quindi, proprio per questo motivo, intesa come batteria di armi contraeree.

Noi ragazzi della borgata vi accedevamo salendo da un sentiero che partiva in fondo alla Via Mons. Riela, suppergiù all’altezza delle stalle con le mucche.

Da questo sentiero, a sinistra si continuava in direzione della casa rossa che dava sulla cosiddetta “prima strada” di Monte Pellegrino e che, ad un certo punto, costeggiava pericolosamente i bordi della cava di pietra sottostante.
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Mentre, continuando sulla destra e rasentando il muro della vecchia fabbrica chimica, si arrivava prima ad una piattaforma in cemento e dopo qualche decina di metri al bunker in questione.

Quella piattaforma di cemento, forse il pavimento di un vecchio capannone, che incontravamo lungo la salita, era luogo di epiche battaglie tra le due bande del quartiere: la banda dei Giglio e la banda dei Mancinella.

Ad essere più precisi questi scontri tra le due bande avvenivano pure lungo le strade dell’Arenella, alcune di queste strade (ad es. Via Papa Sergio I) demarcavano nettamente i territori dove iniziavano e finivano le influenze dell’una o dell’altra banda.

La piattaforma di cui sopra diventava, all’occasione, una specie di fortino e chi vi arrivava per primo aveva diritto a trasformarla in una propria roccaforte, approntando le difese necessarie, mentre, di contro, la banda rivale doveva condurre uno o più assalti per conquistarla!

Ed ecco che iniziavano le sassaiole tra l’una e l’altra parte, che causavano ogni tanto qualche “ferito di guerra”. Infatti, non era improbabile che qualcuno si ritirasse a casa con qualche sanguinante ferita in testa o in altre parti del corpo!

Tornando alla nostra "Batteria", mi ricordo che spesso andavo lì, ma mai da solo, ci andavo quando si riusciva a formare un gruppetto di almeno tre o quattro bambini (perché tali eravamo), giusto perché eravamo coscienti che ci si poteva sempre e comunque soccorrere l’un con l’altro.

I miei genitori non volevano, ovviamente, che io andassi in quel posto, lo ritenevano pericoloso sia per accedervi, sia per il rischio di fare brutti incontri (anche a quel tempo esistevano i pedofili, chiamati più semplicemente e genericamente “maniaci”).

Ma siccome, come si dice a Palermo, eravamo “tuosti”, ce ne fregavamo delle raccomandazioni familiari e imperterriti andavamo lo stesso alla Batteria! Una sera successe che mio padre, rincasato da poco dal lavoro, mi chiamò in disparte nella stanza da pranzo, la stanza più lontana dalla cucina e da orecchie indiscrete. All’epoca potevo avere nove o dieci anni.

E cominciò ad interrogarmi su ciò che avevo fatto durante la giornata. Ad un certo punto, evidentemente non soddisfatto delle mie risposte, con l’aria di uno che non ammette repliche, mi disse: «Tu oggi sei stato alla Batteria, vero?» E io, un po’ sorpreso, ma deciso a non ammettere la mia colpa, risposi: «No, papà, ma quando mai… ».

MPEMMM!!!!! (Te ccà, va scancia!!!) Puntuale come un treno svizzero arrivò un sonoro ceffone che non mi fece finire la frase. È inutile che mi racconti fesserie! So per certo che tu sei andato là, ti hanno visto e mi è stato riferito da persona fidata!” E io, non potendo replicare più, rimasi in silenzio con la guancia dolorante e con un pensiero fisso in testa “Ma cu minchia cciù rissi? Cu fu stù gran curnutu? Chi ghiccassi sangu ru cuori!”*

“Ti raccomando, che sia l’ultima volta!” ribadì mio padre, per fortuna senza accompagnare la frase con un altro timpuluni** “…e adesso andiamo a mangiare…”

E così, mogio mogio, andai in cucina dove ci aspettava il resto della famiglia. Mia madre, ovviamente, già sapeva tutto e solitamente già di sua sponte usava abbondantemente il cucchiaio di legno (che non serviva soltanto a rimescolare i cibi!), ma era pure lei stessa che, spesso, copriva bonariamente le nostre marachelle.

Per quanto ovvio vi assicuro che quella non fu l’ultima volta che il sottoscritto salì alla Batteria, io e gli altri bambini eravamo, come detto prima, troppo tuosti per essere del tutto ubbidienti! Ancora oggi, a più di cinquanta anni di distanza, mi chiedo: «Quale gran cornuto devo ringraziare per quel timpuluni? Ma stù gran curnutu ‘un si putieva fari i cazzi sua??? Muah, sciatiri e matri…».

* “Ma chi cazzo glielo ha detto? Chi è stato questo grande cornuto? Che possa buttare sangue dal cuore!” 
** schiaffo, ceffone
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