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Era un predatore compulsivo: l'avido Verre e il celebre furto (in notturna) al tempio di Agrigento

La ricchezza gli dava alla testa e in Sicilia trovò terreno fertile per la sua avidità. La sentenza riconobbe il Senatore Gaio Verre colpevole ma con una pena irrisoria rispetto alle accuse

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 3 ottobre 2021

Tempio di Asclepio (l'Esculapio dei Romani) nel Parco Valle dei Templi di Agrigento (foto Cristina Annibali)

Diversi storici ed anche Cicerone indicano Agrigento come una delle più ricche e popolose città della Sicilia tra quelle conquistate dai romani; la fertilità del suo territorio e la convenienza del suo porto ne facevano durante la dominazione romana uno degli empori principali del commercio granario.

Le fu concesso di battere moneta con l'iscrizione latina Agrigentum (questo il nuovo nome assunto da Akragas durante la dominazione romana). La città era anche uno dei centri principali per l’estrazione dello zolfo.

Non poteva quindi non attirare l’avido e corrotto pretore Verre, come diverse altre ricche città dell’Isola. Figlio di un Senatore, Verre aveva fatto presto carriera e dopo l'esperienza maturata in Oriente e in Grecia, era arrivato in Sicilia come governatore nel 73 avanti Cristo, rivelando da subito la sua natura di predatore compulsivo: la ricchezza dei templi, degli edifici pubblici e delle case private dell’isola gli facevano perdere ogni freno inibitore. Ha rubato di tutto: tappeti, stoffe, statue, argenti, coppe e bicchieri, ecc.
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Uno dei suoi furti più celebri lo fece ad Agrigento: di soppiatto, fece rubare dal tempio di Esculapio una bellissima statua d'Apollo, che un'iscrizione, incisa nel femore, attribuiva a Myrone.

Ma narra Cicerone che “ad Agrigento a causa del gran numero e del gran coraggio degli abitanti, e in considerazione del fatto che moltissimi cittadini romani, uomini risoluti e rispettabili vivono in quella città …Verre non osava chiedere o portare via apertamente gli oggetti che gli piacevano”, essendo quindi costretto ad organizzare rapine notturne. Ma ciò anche perché, dopo il furto della statua di Apollo dal tempio di Esculapio, gli agrigentini avevano organizzato un sistema di ronde per sventare eventuali nuovi attacchi al loro patrimonio artistico.

Ed ecco cosa altro accadde.

“Il tempio di Ercole ad Agrigento, senza dubbio sacro e venerabile presso di loro, si trova non lontano dal foro. In quel luogo c'è una statua in bronzo dello stesso Ercole. Mai, o giudici, ho visto nulla di più bello di quella statua al punto che la sua bocca ed il suo mento sono un po' consumati, poiché durante le preghiere e le manifestazioni di gratitudine non solo sono abituati a venerarlo, ma anche a baciarlo.

All'improvviso, in piena notte si verificò un accorrere e precipitarsi dei servi armati di Verre verso questo tempio, per portare via la statua del dio.

Si levarono grida da parte delle guardie e dei custodi del tempio; costoro, nonostante tentassero di fare opposizione e difesa, violentemente percossi da mazze e bastoni, vennero respinti. Nel frattempo a causa del clamore, si diffuse per l'intera città la notizia che gli dei patrii erano stati sottratti. Nessuno ad Agrigento né di età tanto avanzata né di energie tanto deboli ci fu che in quella notte non si alzò stimolato da tale notizia, e non abbia afferrato la spada con l'intento di difendere Ercole. E così in un breve lasso di tempo ci fu un accorrere da ogni parte della città verso il tempio.

Da più di un'ora ormai gli uomini di Verre tentavano di demolire la statua; ma quella tuttavia non dava segni di crollare da nessuna parte, dato che opponeva una resistenza maggiore rispetto a quello che poteva essere demolito. Ma all'improvviso gli Agrigentini accorsero tutti insieme; e venne effettuato un grande lancio di pietre; ed i soldati di un tale nobile comandante, simili a ladri che agiscono di notte, si diedero alla fuga.

Non c'è per i Siciliani sventura tanto grande riguardo alla quale non sappiano dire qualche battuta in modo spiritoso e opportuno, come in questa situazione nella quale affermavano che nelle fatiche di Ercole era opportuno ascrivere questo bestialissimo Verre non meno del cinghiale Erimanzio”. Tutto ciò ci viene narrato da Cicerone.

Tale passo, che leggiamo nelle Verrine, ci offre l’immagine di un popolo agrigentino fiero e coraggioso nel mandare a vuoto i piani criminali di Verre e ci testimonia la prospera condizione che la città siceliota presentava in quel tempo.

A nulla valsero le proteste degli Agrigentini che si affidarono alla difesa del concittadino Sofocle, il quale si recò a Roma e si presentò al console Gneo Pompeo.

Il governatore Verre concluse il suo mandato in Sicilia nel gennaio del 70 a.C. ma non ebbe nemmeno il tempo di tornare a Roma che 64 città dell’isola, stremate per le vessazioni subite, decisero di rivolgersi al brillante avvocato Marco Tullio Cicerone per intentare contro Verre una causa per corruzione.

Cicerone arrivò in Sicilia per raccogliere prove documentali e testimoniali. Non tutte le città furono così disponibili in questa lotta contro la corruzione, sappiamo infatti che Messina, Siracusa e Lentini si opposero a dare informazioni contro Verre. Giunse ad Agrigento che invece fornì moltissime prove e testimonianze.

Il 5 Agosto del 70 a.C. iniziò il processo nel foro di Roma. Verre scelse come suo difensore il grande oratore Q. Ortensio, il quale però si rese presto conto di non aver argomenti adeguati per contrastare le accuse verso il suo cliente e rinunciò alla difesa. Verre si rese conto di avere poche speranze e prese volontariamente la via dell’esilio, prima che cominciasse la seconda fase del processo. Ritirandosi, Verre aveva praticamente rinunciato alla difesa ammettendo quindi in parte le sue colpe.

Cinque orazioni di Cicerone ci permettono di conoscere la celebre vicenda giudiziaria. Si tratta delle cosiddette Verrine. Cicerone invocò una decisione che potesse essere da monito per i potenti e fosse un segnale contro la corruzione dilagante.

Denunciando i gravi torti subiti dagli Agrigentini, Cicerone durante il processo disse : “Di questo denaro, giudice, una somma davvero cospicua ed estorta con grande impudenza a gente per nulla disposta a darla, io non ho fatto, né avrei potuto, un conto preciso, quanto cioè fosse stato raccolto dai coltivatori, e quanto dagli uomini d’affari, da quelli che esercitano la loro attività a Siracusa, da quelli di Agrigento, da quelli di Palermo, da quelli di Marsala: ma vi rendete conto oramai, giacché lo ammette anche l’accusato stesso, che egli ha raccolto questa somma da persone che non erano affatto disposte a darla”.

Descrisse inoltre il comportamento disinvoltamente illegale che ebbe Verre nei confronti del senato agrigentino, (supremo organo amministrativo, formato da 110 membri), quando, forte del potere decisorio che gli competeva, Verre non esitò a fare mercato di un posto di senatore, resosi vacante ad Agrigento per la morte del titolare.

Verre non esitò a mettere in vendita la carica al maggiore offerente, calpestando palesemente la legge. Tutto ciò, insieme agli episodi sopra citati sui furti nei templi agrigentini, fecero molto scalpore a Roma.

La sentenza riconobbe il Senatore Gaio Verre colpevole ma solo di pochi reati e con una pena irrisoria rispetto alle accuse.

Gli venne imposto di pagare tre milioni di sesterzi, ma ai Siciliani vennero restituiti solo 750 mila sesterzi e assai poco andò agli Agrigentini. L’accusa aveva stimato che Verre avrebbe dovuto rispondere per danni pari a quaranta milioni dì sesterzi. Ai Siciliani non vennero mai restituiti i furti, né le vittime delle persecuzioni ebbero giustizia.

Pur avendo vinto, la sentenza, in Sicilia, lasciò a tutti l’amaro in bocca.
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