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«La mia scrittura è blues»: il mondo di Piergiorgio Di Cara

  • 13 marzo 2006

Sguardo aperto, aspetto solido modello caterpillar, robusto e affidabile come vorreste il vostro migliore amico. Piergiorgio Di Cara è commissario di polizia, un impegno non da poco. Il suo tempo è doppiamente prezioso, i ringraziamenti per la sua disponibilità sono dovuti.

“Cammina stronzo”, “L'isola nera”, “L'anima in spalla”, “Hollywood Palermo”, “Vetro freddo”. Cinque libri! Come siete cambiati tu e i tuoi personaggi in questo percorso?
«Nel '99, mentre ero vicinissimo alla cattura di un latitante, vinsi il concorso “Orme Gialle”. Dovettero ordinarmi di andare a ritirare il premio! Conobbi così Carlo Lucarelli e Luigi Bernardi che ebbe un ruolo decisivo per la pubblicazione di “Cammina Stronzo”, il mio primo libro. “L'Isola nera” invece nasce a Linosa, i personaggi sono due: l'isola stessa e l'ispettore Riccobono, poliziotto tanto tormentato che volli capire perché, quindi decisi di raccontarne il passato scrivendo “L'anima in spalla”, la mia epopea dell'antimafia. La storia è centrata nel cuore della città da un riferimento alla strage di Via D'Amelio. Il titolo è un omaggio a "La guerra di Piero" di De Andrè, il soldato cammina con l'anima in spalle e incontra un nemico col suo stesso volto ma una divisa di un altro colore. Poliziotto e mafioso dai lati opposti della barricata e con in comune una disperata voglia di normalità, né poliziotto-eroe né mafioso-male assoluto. Anche il killer più spietato ha un suo barlume di umanità interessante da raccontare. In più usai - cosa che in Italia non esisteva - la lingua e la grammatica dei mafiosi, forzando la scrittura in una sorta di gioco. In “Hollywood Palermo”, che uscì subito dopo, racconto un'altra città, un'altra polizia, la storia minore di un delitto comune, per dare una idea di normalità anche nel delitto: Palermo come Milano, Roma, Novi Ligure. In più sperimento una scrittura diversa: terza persona, descrizioni da sceneggiatura e una prospettiva che io definisco “in alto a destra”, attingendo a piene mani dal classico, Hitchcock, Agata Christie, Ellery Queen. Randazzo, l'ispettore di “Hollywood Palermo”, è diverso dal precedente, di lui so ancora poco ma gli darò spazio, devo sapere come finisce il suo flirt!»

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Infine "Vetro freddo": scenario diverso e approfondimento psicologico del personaggio.
«Sì, vengono fuori i fantasmi di Riccobono, scrivere questo libro non è stato facile, del personaggio sapevo solo che veniva trasferito da Palermo alla Calabria, terra piena di contraddizioni che conosco bene. L'ho scelta perchè poco raccontata in letteratura noir. Questa regione è un luogo di intenso traffico criminale e la 'ndrangheta è una associazione mafiosa molto violenta, potente e poco conosciuta dal pubblico letterario. Ho “girato in auto” con l’ispettore, spiando i pusher, seguendo i sospetti ma ad un certo punto ho perso il polso della storia. Ho fatto una pausa e quando ho ripreso il computer ho scritto un resoconto, come se il personaggio stesso ricostruisse tutto quello che era successo. Scrivendo mi accorgevo – e questo è entusiasmante – che scoprivo la verità, la storia esisteva già e io non lo sapevo! Le storie, i personaggi hanno vita propria, tu scrittore non ne sai niente! È la magia dello scrivere, e la mia “creatura” comunque ha ancora molto da dire, la sua introspezione psicologica deve pur concludersi».

Da cosa deriva la tua sensibilità blues per l'anima nera degli ambienti che descrivi?
«Ho 40 anni, sono cresciuto con i Doors, i Pink Floyd, Jimi Hendrix, Eric Clapton, John Lee Hooker, grandi maestri del blues, cerco sempre di evocare questa musica con una scrittura un po' sincopata, lenta, come scritta col dobro, il doubleneck. Quindi questa sensibilità deriva dalla mia formazione ma anche dal fatto che mi piace cogliere i tratti essenziali degli ambienti, forse per la mia attitudine da “sbirro-scrittore”».

La tua sensibilità verso quella che definisci la terza dimensione, quella della profondità, nel tuo doppio lavoro di poliziotto e scrittore quando ti è utile e quando invece ti mette a disagio?
«Apprezzo la domanda. In "Vetro freddo" mi sono interrogato sulla dimensione personale. Buona parte delle cose che facciamo, diciamo, sogniamo, credo non le decidiamo noi ma una entità che non conosciamo pur avendola dentro. Sento il bisogno di scoprire quest'anima, alienarla, farla diventare altro da me per poterla meglio comprendere. In questo la mia attività di poliziotto mi aiuta molto, perché come ho detto non mi fermo a considerare il reato e il reo come due termini di una equazione, voglio capire il contesto, scoprire l'umanità, le storie, le emozioni che sono dietro ai fatti su cui indago. Cerco di comprendere, per questo la parola che meno sopporto rispetto alla diversità è tolleranza. È un termine che io contesto duramente, usato nei confronti dell'extracomunitario o del diverso ha insito il significato del fastidio. Chiaramente le mie due anime a volte entrano in conflitto, ci sono cose che da scrittore direi ma da poliziotto non mi sento di dire, perché c'è in me un senso del dovere che non limita la mia libertà di pensiero ma in qualche modo la condiziona. Ho forte il senso dello Stato, per questo ho scelto di diventare poliziotto negli anni ottanta, anni di guerra alla mafia, ultimi momenti della contestazione giovanile, anni in cui i miei coetanei di Bologna, Roma, Milano si scagliavano contro le istituzioni, mentre io mi sentivo dalla parte dello Stato, perché vedevo morire ammazzati giudici, giornalisti, poliziotti».

Quali sono le giornate tipo del commissario e del suo alter ego scrittore? Come si intrecciano i due personaggi nella vita reale?
«Il poliziotto fa una vita caotica, lo scrittore si adatta, scrive la sera, in ufficio nei momenti di pausa. Un momento irrinunciabile è l'allenamento, faccio pesistica e rugby. Nella vita c'è bisogno di spazi del tutto intimi, per me questo spazio è rappresentato dallo sport. Mi piace la musica del muscolo sforzato, l'armonia della fatica. Amo il rugby perché è condivisione, una metafora del mio lavoro. Sul campo l'individuo non esiste, c'è solo il gruppo. La palla si passa solo all'indietro, paradosso meraviglioso! Tu stai per arrivare ma cedi la palla a chi è alle tue spalle, rimetti in gioco l'azione, il destino di te stesso e della squadra e quando c'è una mischia ti tuffi a capofitto per liberare il tuo compagno e per riconquistare la palla».

Pensi mai di scrivere qualcosa di diverso dal tuo solito?
«Vorrei sperimentare una scrittura nuova, per esprimere diversamente le storie che sento, non rimarrò un poliziotto giallista. Le storie crescono dentro, quando avrò quella adatta il cambio di tono avverrà naturalmente. Sogno un fumetto tratto da uno dei miei libri, “Vetro freddo” magari».

Ti piacerebbe fare un film da un tuo romanzo?
«Si! Hollywood Palermo era scritto inizialmente come una sceneggiatura e i romanzi di Riccobono sono stati opzionati dalla Cattleya per una serie tv».

Presenterai "Vetro freddo" anche a Palermo?
«Certamente! Spero presto, al Kals'art».

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