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Se oggi Segesta "esiste" è anche grazie a lui: l'avvocato-archeologo che pochi conoscono

Giuseppe Leonora fu uno dei personaggi più rappresentativi di Calatafimi Segesta. Fu lui, nel 1834, a condurre i primi scavi sul sito archeologico. La sua storia

Enzo Mazzara
Architetto appassionato di storia locale
  • 24 gennaio 2024

Il Tempio di Segesta

Il farmacista Nicolò Mazzara (1879-1956), di cui ci rimane un prezioso lavoro sulla storia e sull’arte della nostra città dal titolo "Calatafimi, opere, arte, Toponomastica e canti popolari", pubblicato nel 1991, fu un prezioso testimone del suo tempo che ci consente, oggi, di conoscere la vita e le iniziative di alcuni personaggi illustri, vissuti a Calatafimi, nelle epoche passate.

Uno dei personaggi più rappresentativi descritti dal nostro farmacista fu Giuseppe Leonora, di cui ha messo in evidenza le grandi qualità professionali e la meritoria iniziativa di avere avviato le compagne di scavi a Segesta.

Nel presentarlo col doppio appellativo, di "valente avvocato" e "dotto archeologo", l’autore dell’opera sopra riportata, Nicolò Mazzara, lo include nella "famosa triade" di avvocati calatafimesi, assieme a Nicolò Zuaro Pampalone e Michele Mazzara, che “ebbero fama nella provincia e diedero lustro alla città”.
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In particolare Giuseppe Eleonora aveva coltivato la sua passione per l’archeologia e per la numismatica e svolto il ruolo di corrispondente della Commissione di antichità e delle Belle Arti della Sicilia, in parallelo alla sua attività lavorativa e al suo impegno sociale.

La qualificata attività di ricerca archeologica, nel 1834, indusse il Governo dell’epoca a conferire al nostro concittadino, allora quarantenne, il prestigioso incarico di condurre i primi scavi sul sito archeologico di Segesta, con le finalità di portare alla luce lo "stilobate" del Tempio ossia il piano composto da blocchi, che formavano tre gradini e che, fino a quel momento, era rimasto completamente interrato.

Il Tempio è rivolto, nel rispetto della tradizione, da levante a ponente, mentre il colonnato è composto da 36 elementi, 6 sui lati corti e 14 su quelli lunghi, compreso quello d’angolo.

L’importanza dell’attività svolta dal Leonora non è stata solo quella di avere messo in evidenza le parti interrate del tempio ma quella di avere svolto una concreta attività di indagine mirata a rilevare l’esistenza del "Naos" o cella, ossia di quelle che lui chiama “vetuste strutture”, di cui non era mai stata trovata traccia.

Come venne poi accertato, di quei resti non sarà trovato alcun residuo nemmeno quello delle fondamenta. Tale risultanza venne interpretata in vario modo dagli studiosi, qualcuno ritenne che la costruzione dell’edificio venne, ad un certo punto, interrotta a causa della guerra scoppiata contro Selinunte, nel 416 a.C.

Qualche altro affermò che probabilmente il tempio non aveva né il Naos, né il tetto perché i riti della religione dei Segestani si svolgevano all’aperto e non prevedevano la cella e la copertura.

In realtà come recentemente ha scritto il professore Leonardo D’Asaro nel libro, Minosse e Cocalo, mito e storia nella Sicilia occidentale, la costruzione del tempio era iniziata dopo il 480 a.C. quando gli Agrigentini e i Siracusani avevano inflitto ai Cartaginesi una pesante sconfitta ad Himera; I Cartaginesi erano stati costretti a pagare una pesante indennità di guerra con la quale, gli Agrigentini-Siracusani costruirono il tempio di Himera ed iniziarono la costruzione del tempio gemello a Segesta.

Le vicende storiche subite da Segesta negli anni successivi impedì il completamento del tempio che è di chiara tipologia greca di cui rispetta le forme e le caratteristiche. Significativo è il fatto che la Cella, prevista nel progetto iniziale, non venne mai realizzata.

Di altri Templi è stato accertato, ad esempio, che la Cella venne realizzata dopo la costruzione della Peristasi (il colonnato periferico), ma in questi casi, per prima cosa, venivano costruite tutte le fondamenta.

Le indagini archeologiche condotte dal Leonora, anche se non diedero i risultati sperati, portarono, comunque, a ottenere i primi interessanti elementi, da cui si poteva ricavare, come ci ricorda il farmacista Mazzara «e un ricco materiale di studi».

Grazie all’infaticabile attività del Leonora, oggi, possiamo disporre di una notevole collezione di antiche monete, pur ridimensionata da inspiegabili smarrimenti, e di un catalogo manoscritto di medaglie greco-sicule in oro e argento rarissime e, in parte, inedite, oltre a numerosi "bolli anforari" o "manubris" ed una "dotta monografia" dal titolo di "Ricerche sulle antichità di Segesta" che, sempre il Mazzara, definì «molto interessante per ricchezza di notizie, originalità di considerazioni e genialità di vedute».

Per non perdere i risultati delle prime scoperte, le operazioni di catalogazione dei reperti furono affidate al certosino lavoro dei suoi amici più fidati che, nel 1848, compitala, dietro dettatura dello stesso autore, imposta dall’emiplegia che, disgraziatamente, lo aveva colpito nel lato sinistro e aveva compromesso la facoltà di utilizzare l’arto destinato alla scrittura.

Purtroppo, i suoi studi non ebbero «la fortuna della stampa» come, puntualmente, ha rilevato lo storico Mazzara, tant’è che quel manoscritto “imperfetto”, rimasto sui polverosi scaffali della biblioteca comunale, dopo che fu donato alla Città dal Podestà, il Cavaliere Ingegnere Ernesto Li Bassi, nell’aprile del 1932, dovette attendere circa un secolo e mezzo prima di essere pubblicato.

La sua divulgazione è avvenuta nel 1991, a cura dell’associazione culturale “Preside prof. Salvatore Vivona”, che chiese a Giuseppe Nenci (1924-1999), professore dell’Università degli Studi di Pisa ed autore di un prezioso scavo archeologico a Segesta, di presentare la pregevole opera.

Nel ringraziare la comunità della meritoria iniziativa, il professore Nenci, ha ricordato come, all’avvocato Leonora, grazie alla meticolosa e paziente raccolta di materiale prodotta da un impegno ed una discreta abilità, si dovevano riconoscere il merito di aver dato al suo lavoro un metodo scientifico, al punto che, oggi, a distanza di quasi due secoli, «non può prescindere dal suo contributo».

A ciò si aggiunga che il Nenci, nel presentare il lavoro del nostro Leonora, ha ricordato che egli in «questa esperienza di scavo», era talmente sicuro di rinvenire, agevolmente e nel breve tempo possibile, le strutture della Cella, da ritenere che presto avrebbe trovato le strutture del prezioso elemento ben sapendo che dovevano trovarsi ad una quota più alta, rispetto a quella dello "spiccato dei gradini".

Ciò perché il Leonora era convinto che, dopo avere "sgomberato lo stilobate", rimuovendo i detriti accumulati nell’area centrale del tempio avrebbe dovuto rinvenire i resti della Cella.

Ecco come si esprimeva il nostro concittadino archeologo: «Or l'occasione di avere noi assistito per incarico del governo allo sgombero dei gradini di esso nel 1834, possiamo assicurare colla maggiore certezza e buona fede essersi trovata essa gradinata anziché coverta di cementi della supposta distrutta cella come era ben naturale, seppellita invece del tutto da quel lapillo tratto dal suolo, e che un tempo si dovette sovrapporre ai gradini stessi per non venir danneggiati dall’enormi masse che furono impiegate per l’innalzamento delle colonne».

Sembra invece che, quella speciale campagna di scavi, al di là di tutto, lo avesse portato a porsi, criticamente, talune domande a cui, purtroppo, non seguì alcuna adeguata risposta, se non quella che sanciva l’ineluttabile verità, e cioè il dovere ammettere che la costruzione del Naos non era stata mai realizzata e che il Tempio era "incompleto" o, addirittura, "imperfetto".

Significative furono le sue annotazioni: «Ove dunque andarono li ruderi della supposta cella? è impossibile che non ne fossero lì esistite le venerande reliquie.

È questa una prova di fatto che esclude qualunque capricciosa congettura sull’esistenza della cella e ci obbliga a conchiudere l’imperfezione del Tempio, entro il quale se ne osservano le sole vestigia delle fondamenta angolari e del portico sopra le quali doveva innalzarsi e nulla più».

Tali considerazioni hanno condizionato l’opinione degli studiosi successivi che hanno perfino immaginato che il tempio avesse una conformazione diversa dai prototipi greci perché la religione degli Elimi prevedesse riti all’aperto e senza Naos.

Passando ora a tracciare un profilo biografico dell’illustre personaggio, sulla scorta di documenti inediti, possiamo dire che, l’avvocato Giuseppe Leonora, ultimo di 7 fratelli, nacque a Calatafimi il 10 novembre 1791, da mastro Carlo Leonora e Filippa Simone, nella casa paterna, ubicata nel quartiere dell’Ospedale Vecchio, per intenderci, all’inizio dell’attuale corso Garibaldi, e fu battezzato nella chiesa della Madrice, col nome di Giuseppe Maria Stefano.

Del fratello Salvatore, unico sopravvissuto, sappiamo che fu avviato alla vita religiosa, già alla tenera età di 10 anni, consacrandosi, dapprima, come chierico, nel 1811, e poi nel 1823, come sacerdote e cappellano sacramentale nella chiesa della Madrice, mentre, nel 1826, andrà a ricoprire il ruolo di “beneficiale” della chiesa campestre di Giubino. Giuseppe, contrariamente a Salvatore, intraprese gli studi in Giurisprudenza, conseguendo la laurea in “utroque jure doctor”, dottore in ambedue i codici, cioè sia nel diritto civile che in quello canonico, mentre, sin dal conseguimento del predetto titolo, nel 1817, fu chiamato a ricoprire la carica di "sostituto pro-segreto".

Il 10 luglio 1826, don Giuseppe Leonora, convola a nozze con Luigia Avila, figlia di Giuseppe e Carmela Grado, mentre il fratello benedirà il matrimonio.

In questo particolare frangente, si comprende bene come egli, già all’età di 35 anni, facesse parte dell’élite calatafimese, prova ne è il fatto che, tra i testimoni di nozze, si annoverano personaggi ben in vista, che ricoprivano cariche sociali tra le più importanti dell’epoca e cioè, il sindaco, don Leonardo Adamo, il giudice, dottor don Agostino Gallo, e il dottor don Antonino Stabile.

Nonostante tutto, il destino si dimostrò con lui piuttosto duro e crudele: il suo primogenito, Carlo, al momento della nascita, il 14 maggio 1827, ritenuto in fin di vita, perché nato prematuramente fu, dapprima, battezzato a casa, in maniera frettolosa, dalla medesima ostetrica, Pietra Evola, e dal medico chirurgico, dottor don Gabriele Catalano, mentre, solo successivamente, dopo il “momentaneo scampato pericolo”, venne portato nella chiesa Madre, dove ebbe luogo la regolare cerimonia battesimale, celebrata dall’arciprete Francesco Avila (1777-1856), e dove gli venne imposto il nome di Carlo Francesco Domenico, alla presenza dei padrini, il dottor don Domenico Stabile e donna Carmela Grado.

A distanza di soli 4 giorni, il 18 maggio, il piccolo Carlo morì e si provvide a dare, alle spoglie, degna sepoltura, nella chiesa dei Cappuccini, a cui seguì, purtroppo, a distanza di poco meno di un mese, l’11 giugno, il decesso, all’età di 31 anni, della moglie Luigia (le cui spoglie mortali furono sepolte anch’esse nella chiesa dei Cappuccini, accanto a quelle del figlio).

Il Leonora si sposerà il 29 ottobre 1838, in seconde nozze, con donna Antonina Avila, sorella della sfortunata consorte, circa undici anni dopo i tragici episodi che colpirono la sua famiglia, rinunciando ad abitare nella casa in cui aveva vissuto, fino a quel momento e, dove, i brutti ricordi, ancora vivi, legati alle vicissitudini familiari, molto probabilmente, avrebbero continuato ad angosciarlo.

Egli, pertanto, decise di andare a vivere, con la moglie Antonina, in un’altra casa, ubicata, non molto distante dalla prima, esattamente nel quartiere di san Giuliano, dove risiederà fino alla morte, che sopraggiungerà, per malattia, all’età di 57 anni, nel 1849.

La sua vecchia dimora, tuttavia, continuerà ad essere abitata dal fratello, che condividerà con la perpetua, fino al 20 luglio 1845, anno della sua scomparsa.

Oggi, delle rocambolesche imprese, delle sfide professionali e delle vicende familiari che il Leonora dovette affrontare con grande coraggio, abnegazione e, probabilmente, anche con molta fede cristiana, non rimane che un lontano ricordo.

Così come è, ormai, un lontano ricordo, il visionario progetto, che all’incirca cento anni fa, avrebbe dovuto portare alla realizzazione, a Calatafimi, del museo archeologico di Segesta, idea balenata all’allora primo cittadino (il Podestà, Cav. Li Bassi), quando ebbe l’avvedutezza di donare il manoscritto del Leonora, alla comunità, affinché tutti ricordassero il legame storico tra i Calatafimesi e Segesta.

Su quel primo nucleo museale, da realizzare in seno alla biblioteca comunale, nel cuore del centro storico della città, egli aveva riposto, sicuramente, grandi aspettative, a partire dall’affettuoso appellativo di “piccolo museo di Segesta” perché, simbolicamente, doveva rappresentare, a nostro modesto parere, il “seme” del riscatto sociale e culturale della comunità calatafimese che, nel tempo, avrebbe dovuto occuparsi di far crescere e fiorire, accogliendo nuovi reperti e ampliando gli spazi di visita.

Eppure, di quella preziosa “eredità cultuale”, ricevuta in dono dal lungimirante Podestà, nessun amministratore comunale, sino ad oggi, si è mai preoccupato di valorizzare, mostrando tanto disinteresse e insensibilità.

Se solo lo si avesse voluto veramente, avremmo potuto vantare, già da tempo, a Calatafimi, la nascita di un polo museale di tutto rispetto e di una importante attrazione turistica, che avrebbe certamente calamitato, se non tutti, almeno una parte degli oltre 350.000 turisti che si recano ogni anno a Segesta.

Oggi, per uno strano scherzo del destino, si è preferito ignorare quell’input prezioso e far decollare un piccolo surrogato museale a Segesta.

Infatti, a Segesta, già da qualche anno, è stato allestito uno spazio espositivo (chiamato l’Antiquarium dello “Stazzo”), adiacente al punto di ristoro, in cui sono esposte le mensole, a forma di prua di nave, provenienti dal recente scavo della casa del “Navarco”, mentre altri reperti simili sono stati mandati al “Palazzo Reale”, a Palermo, per una mostra sulle testimonianze siciliane.

Parimenti, altri importanti ritrovamenti "segestani", oggi, si trovano esposti in una mostra d’oltralpe, presso il museo dell’università di Ginevra, mentre ben due mostre sono state realizzate nella vicina Erice che, come ben sottolineava la dottoressa Rossella Giglio, è stata la terza città Elima più importante, dopo Entella e Segesta, e quindi meritevole di ospitare attività culturali, prima di altre città.

Così, la direttrice del Parco, in un video messaggio, realizzato in occasione della terza Giornata dei Beni Culturali Siciliani a conclusione dell’incarico di responsabile del polo museale, ricordava le molteplici iniziative svolte su Segesta, ma che con la nostra città, in concreto, ha avuto a che fare, poco e niente.

Ora, per dirla tutta, al danno si aggiungerebbe anche la beffa, perché, oltre a perdere, ogni anno, numerose occasioni di lavoro, dal momento che Calatafimi, di fatto, è rimasta "tagliata fuori" dal grande circuito di visite, ha dovuto rinunciare, col silenzio di tutti, alle innumerevoli opportunità, così dette "collaterali", cioè quelle piccole, ma altrettanto importanti, iniziative imprenditoriali che avrebbero potuto stimolare e supportare, l’economia locale, durante i periodi di bassa stagione o nei "tempi morti".

Come ad esempio le attività di catalogazione, di studio, ma anche di restauro, di formazione professionale e laboratoriale, oltre a quelle legate all’editoria specializzata, alla collaborazione scientifica nazionale e internazionale, alla pubblicità e comunicazione, ed ancora, a quelle iniziative, non meno importanti, legate alle manifestazioni teatrali, come la scuola di recitazione e di arti sceniche, che avrebbero potuto svilupparsi comodamente nel nostro centro abitato, sfruttando le numerose strutture pubbliche, attualmente inutilizzate.

L’idea di realizzare un polo museale archeologico, a carattere regionale, nel capoluogo di provincia, lanciata, come guanto di sfida, dal presidente del Consorzio Universitario di Trapani, prof. Francesco Torre, al Sindaco Giacomo Tranchida, sul finire del suo primo mandato (fonte: trapaniSì.it del 8.7.22 - autore dell’articolo: Francesco Tarantino), doveva servire da sprono al nostro primo cittadino, eletto proprio in quel periodo, affinchè diventasse il suo principale “cavallo di battaglia”, ma così non è stato.

Alla “rinnovata” squadra di governo, lungi dal voler sembrare retorici, facciamo ancora una volta i nostri migliori auguri di buon lavoro anche se, visto i risultati raggiunti fino ad oggi e visto anche il tempo rimasto, difficilmente crediamo che possa essere all’altezza di importanti sfide come quella di riuscire a portare il museo archeologico a Calatafimi-Segesta, prima che venga realizzato a Trapani, secondo i desiderata del prof. Torre.
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