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Stava a Ballarò, con 10 lire cantava e ti dava i numeri al lotto: perché si dice "Pari Sulinu"

Le versioni sono 120 quanto la briscola, ma noi (cioè io) cercheremo di tracciare una mappatura generale. Siamo tra gli anni 50 e gli anni 70, ovviamente a Palermo

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 27 febbraio 2023

"Ballarò", una delle opere della mostra "Tutto il mondo è qui" di Domenico Cocchiara

Sarà che il tempo cambia ogni cosa, o come diceva Sofocle “svela tutto e lo porta alla luce”, ma se penso al periodo delle scuole medie, quello in cui la felicità era direttamente proporzionale alla quantità di moccolo che colava dal naso, mi viene nostalgia.

Tutto più semplice, tutto meno complicato… forse. Le femmine erano belle anche a quei tempi pure col cerchietto in testa e le gonnelle scozzesi. I maschi invece erano pressoché tutti "malicombinati", con le scarpe tre misure più grandi, i completini del mercatino e taglio di capelli alla Sanfasò.

Come potevamo mai reggere il confronto? E infatti quando donchiscottésca illusione di lettera d’amore s’insinuava in testa di maschietto - già compromessa dal morbo di Topexan - le malafiure (brutte figure) inevitabilmente arrivavano a mare. La prima volta non si scorda mai, anche perché con buona probabilità ti traumatizza per tutta la vita.
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«Ti vuoi mettere con me (Si) (No)”, si piegava in quattro la lettera, si dava al compagno che faceva da postino e si aspettava la risposta». Ho ancora la scena davanti agli occhi.

Lei che apre la lettera, legge la domanda e risponde: «Ma chi, quello? Pari Sulinu!». Per quanto la mia mente annebbiata d’amore stesse cercando di costruire castelli di sabbia e alibi, quella risposta, quel “pare Sulino”, mi lasciò leggermente interdetto, tant’è che andai a chiedere spiegazioni al professore Terranova.

«Ah, che pari Sulinu ti disse?». Quella controdomanda con tono morente e senza risposta rimase per circa trent’anni così: morente e senza risposta. Questo almeno fino a quando giunse il momento di fare pace con il passato e cercare delle risposte.

Il punto di partenza è: perché a Palermo si dice “pari Sulinu” quando uno è malicombinato? Anche qui le versioni sono 120 quanto la briscola, ma noi (cioè io) cercheremo di tracciare una mappatura generale. Siamo tra gli anni 50 e gli anni 70, ovviamente a Palermo.

A Ballarò, nel cuore del quartiere Albergheria ci sta l’antica chiesa Sant’Isidoro Agricola o volgarmente detta chiesa dei Fornai, perché il 18 maggio 1667 viene assegnata alla maestranza dei panettieri.

È da una di queste viuzze - così almeno vuole una delle tesi più accreditate - che ogni mattina esce di casa una delle più belle maschere e anime che Palermo abbia mai avuto. Rosolino si chiama, ma tutti lo chiamano "Sulinu" perché con il nome ti puoi sbagliare, con il soprannome sei sicuro che si sta parlando di lui. Papà non c’è più e lui abita lì con la mamma e la sorella.

Dovrebbe forse campare la famiglia Sulinu, ma purtroppo non può perché è un ragazzo speciale o, come direbbe qualche direbbe qualche malato di mente, un malato di mente.

Bello non è, le cose giuste, il Signore non gli ha dato questa grazia. Anzi, è più tosto bruttino, tiene una postura curvata in avanti tipo gobba, orecchie a paracqua di cui si ricordano tutti, capelli rasati e indossa sempre lo stesso cappotto dalla mattina alla sera, estate e inverno.

Noi abbiamo dato questa ubicazione perché è quella che ci ha convinto di più, ma c’è chi dice abitasse in via D’Ossuna, chi in via Giuseppe Crispi, in una persiana a pianterreno vicino la Chiesa di Santa Chiara, chi giura abitasse al baglio Crociferi in quartiere Noce o addirittura alla Zisa.

Questo poco conta, e probabilmente non interessa manco a lui che tanto passa tutta la santa giornata a passeggiare e a portarsi appresso dei cartoni sotto le ascelle che nella sua testa sono picculi.

La gente gli vuole bene a Sulinu, perché non fa male a nessuno e perché con tutta una serie di modi di dire intraducibili porta una ventata di allegria alla gente cosiddetta normale: “To matri è muaitta!” (tua madre è morta) “Cheffa, mu schiacciu u naso?” (me lo schiaccio il naso), “Rammi 10 liri ca ti cantu na canzuni”.

E in effetti Sulinu con dieci lire non solo ti canta una canzone infilandosi due dita nel naso, ma se è preso a bene ti da pure tre numeri a lotto, e non pochi palermitani ha fatto vincere.

E mentre le giornate passano così, a scaminiare per le strade della città, ed essere fermato ovunque da tuti i palermitani (perché non è giornata se non fermi Sulinu), lui zitto zitto sembra avere capito che le persone fanno solo danno e come san Francesco se ne va a parlare con gli animali.

Nella fattispecie Sulinu ha una passione per gli asini e i cavalli, e per questo motivo durante le sue interminabili camminate non si fa mai mancare un pistop nelle piazze dove sostano le carrozze. Gli parla all’orecchio Sulino, agli asini dice “si me frati”, ai cavalli invece, un po’ più emozionato, dice “tu si me patri”.

Eh, ma il dolce non può essere mai così dolce senza l’amaro.

Anche nella vita sempre in movimento di Sulinu c’è una nota stonata: i bambini. Eh già, perché, nonostante oggi ripetano continuamente che ai loro tempi erano tutti educati, non c’è combriccola di bambini che non si diverta a prenderlo in giro ovunque.

“Sulì, to matri pilusa è?”, “Sulì, to matri morta è?”. E siccome Sulino di mamma ne ha una, e giustamente ci tiene pure, per questa cosa s’arrabbia assai. “Buono sì,” magari pensa fra sé e sé “ma cretino picchì?!” Per questo motivo che Sulino cammina tutti i santi giorni della sua esistenza con le tasche piene stracolme di pietre.

E appena qualcuno fa il vastato e gli fa girare i cosiddetti, infila le mani nel cappotto e prende tutti a pietrate. Chi ne ha memoria racconta che Sulino avesse una mira infallibile e che riuscisse a colpire un barattolo a 40 metri di distanza.

Purtroppo tra una pietrata e l’altra la vita è così, chi parte, chi si fa una famiglia, chi cambia quartiere, e di Sulinu se ne perdono le tracce fino a svanire nel nulla.

Una versione molto romantica, anche se triste, vuole che una brutta mattinata, un po’ come L’uomo in Frac di Modugno, sia stato ritrovato a galleggiare nel porticciolo della Cala con le tasche del cappotto ancora piene di pietre. E insomma, questo fu…

Per quanto riguarda me, mi ci sono voluti trent’anni per capire che quella bambina era bella fuori - e magari solo fuori - e che forse non era poi una cosa troppo cattiva sembrare Sulino. Probabilmente aveva ragione il professore Terranova quando alla fine di quella tremenda giornata mi diede una pacca e disse: “Futtitinni, tanto l’amore è una forma di esaurimento nervoso…”
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