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Musica e viaggi in "Un Mondo Raro": a tu per tu con Fabrizio Cammarata

Lontano dalla mentalità gattopardesca, con tanti sogni nel cassetto: è Fabrizio Cammarata, cantautore palermitano che si rivela fra progetti e punti di vista

  • 4 aprile 2017

La musica, l’amore per il viaggio, il progetto in Messico. Ce li racconta Fabrizio Cammarata, punta di diamante del cantautorato palermitano.

Classe ’82, Fabrizio è conosciuto per i suoi live intimi e vibranti, per una voce pulita ma toccante, che lascia il segno. E per i testi, in lingua inglese, che inizia a scrivere quando entra in contatto con il mondo dei grandi Bob Dylan, Leonard Cohen, Nick Drake, Bob Marley. Un artista che considera quello della musica un unico, grande mondo, in cui non esistono confini.

Lasciandosi alle spalle quella mentalità “gattopardesca” che non riconosce propria, con dedizione e sacrificio Fabrizio porta la sua musica in giro per il mondo, dedicandosi alla propria passione.

È protagonista insieme all’amico Antonio Di Martino di “Un mondo raro”, progetto nato quasi per caso da un viaggio in Messico e dalla passione smodata per la cantautrice Chavela Vargas, icona borderline di una cultura d’oltreoceano sconosciuta ai più.
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Fabrizio, com’è nato questo interesse per una cantautrice come Chavela Vargas, non molto conosciuta qui in Italia? «Sono una persona molto curiosa.
Il mio interesse per Chavela è iniziato più di dieci anni fa, quando ascoltai per la prima volta “La llorona”, nell’album di un amico spagnolo. Mi piacque così tanto che gli feci i complimenti, credendo che l’avesse scritta lui. Mi rivelò, poi, che si trattava di un brano messicano. Da lì le mie ricerche mi hanno condotto fino a questa anziana signora novantenne in poncho rosso. In poco tempo Chavela è entrata a far parte di quel pantheon al femminile che ha profondamente ispirato la mia musica, insieme a Nina Simone, Billie Holiday, Bessie Smith ed Edith Piaf.

Trovi, quindi, che interpreti femminili di questo calibro siano particolarmente affini al tuo approccio alla musica?
Si, penso che nella storia della musica le donne abbiano sempre avuto una marcia in più, da questo punto di vista. Hanno osato fino al limite, più di molti interpreti uomini.

Come è nata la collaborazione con Antonio Di Martino?
Sono stato in Messico molte volte per proseguire la lavorazione del mio road movie, progetto che ho iniziato tanti anni fa ed ancora in corso. Antonio, che è uno dei miei migliori amici, si è offerto di accompagnarmi, dopo la fine della tournee per suo secondo album.

Quindi vi conoscete da molto tempo.
Si, da tanti anni. E il Messico per lui, amante del viaggio, era un’occasione per visitare un posto in cui non era mai stato. In modo del tutto spontaneo, mentre lavoravo al mio progetto, è nata l’idea di questo lavoro sulla Vargas, che aveva conosciuto grazie a me. Abbiamo iniziato a lavorare da subito, con la sensazione che tutto venisse in modo talmente facile da sembrare assurdo. “Un mondo raro” potrebbe apparire di certo un progetto ambizioso, in verità è nato da sé.

Il fatto che sia nato così spontaneamente dall’amore per la musica e per un’artista gli conferisce ancora più valore.
Si, e quello che ci ha colpito è che non ha richiesto sforzi. Mi piace pensare che questa fluidità abbia un che di magico. Ci siamo sentiti entrambi come in uno stato di grazia, specialmente per tutte le cose che ci sono capitate, dal conoscere i chitarristi della Vargas e registrare con loro in studio, all’incontro con i suoi amici e con tutte le persone che le sono state vicine negli ultimi anni di carriera e di vita. Abbiamo raccolto talmente tante storie che il disco non bastava più, perciò abbiamo deciso di conservarle in un romanzo.

Tu e Antonio avete in cantiere nuovi progetti insieme?
Non programmiamo niente, teniamo le porte sempre aperte a tutto. Ma ci siamo ripromessi di farlo soltanto nel caso in cui scocchi la scintilla per un altro artista, così come è stato per Chavela Vargas. Ci concentreremo per il momento sui nostri prossimi album, in uscita a fine anno.

A proposito del nuovo album, tornerai al vecchio stile, con i testi in inglese?
Nei nuovi brani sto puntando molto sul minimalismo, in linea con il tipo di suono che ho sviluppato negli ultimi live. Suono quasi sempre da solo, mi sento più libero di esprimermi con la mia musica, anche a livello di interpretazione vocale, e il disco terrà conto di questo. Si sentirà molto la mia presenza, più che negli altri lavori. Per quanto riguarda l’inglese, è la lingua in cui scrivo, non per scelta. È qualcosa che mi appartiene da sempre, a differenza di quel che pensano molti, che sia magari una scelta “di comodo”.

Navigando nei ricordi, qual è il primo che ti ritorna in mente, pensando al tuo primo contatto con la musica?
Pensando al momento in cui ho deciso di fare musica, mi torna in mente un ricordo che è riemerso di recente, con la scomparsa di Chuck Berry. Quando avevo circa 9 anni rimasi talmente colpito dalla scena di “Ritorno al futuro” in cui Michael J. Fox suona sulle note di “Johnny be good”, che ho pensato: “voglio essere come lui!”. Così ho chiesto la mia prima chitarra e, guardando quella scena fino allo sfinimento, ho finito per imparare a suonare quel brano prima di sapere cosa fosse il DO!

Cosa consiglieresti, oggi, ad un giovane che voglia intraprendere una carriera musicale?
Gli direi di abbandonare una mentalità troppo restrittiva, di essere pronto al cambiamento e a mettersi in gioco. Di abbandonare la classica mentalità “gattopardesca” che fa addossare la colpa di tutto sempre e solo all’ambiente. Si deve essere pronti al sacrificio. Io e Antonio abbiamo abbandonato le nostre carriere per seguire la musica (io da ingegnere, lui da professore). Tutto sta nel capire quanto vuoi scommettere su te stesso. E muoversi, viaggiare, confrontarsi.

Fabrizio si definisce un artista “senza casa”. La sua casa è ovunque ci sia uno scambio, una lezione di vita, un incontro. Come quello con Damien Rice, uno dei suoi punti di riferimento. Un improvvisato tour notturno per le vie di Taormina, fino alle prime luci dell’alba, in una inaspettata dimensione di umiltà.

A proposito di viaggi, nei tuoi tanti spostamenti per il mondo, tra tutti gli artisti che hai avuto la fortuna di incontrare, chi ti ha lasciato un ricordo in particolare?
Ho avuto la fortuna di conoscere alcuni fra i miei più grandi miti, primo fra tutti Ben Harper, per cui ho aperto un concerto. Con lui è nato un bel momento di scambio, abbiamo parlato della musica, mi ha dato pareri sui miei brani, è stato un momento gratificante. Mi ha colpito quando l’argomento si è spostato su un piano più spirituale, parlando di dio. Sono un materialista, ma non posso negare la presenza di una forte spiritualità anche nei miei brani, come in gran parte della musica. La spiritualità c’è sempre, quel “quid” che ci spinge a creare qualcosa di grande, di bello.

C’è qualcuno che ti piacerebbe incontrare, e che non hai avuto ancora la possibilità di conoscere?
Ho un sogno ricorrente, da quasi vent’anni: io che bevo un whiskey con Bob Dylan. Cosa quasi impossibile…

In effetti non c’è riuscita neanche la commissione del Premio Nobel…
Esatto. Questa sua personalità così solitaria gli causa da sempre mille critiche. Ho imparato a conoscerlo nel tempo, è un suo tratto distintivo, è coerente nel suo essere un po’ “personaggio letterario”. E mi affascina questa sua solitudine.

Bene, ti lascio con un’ultima domanda. Fabrizio Cammarata ha un sogno nel cassetto? Qualcosa che da sempre vorrebbe fare e che ancora non ha fatto?
Ce ne sono varie, in effetti. Mi piacerebbe molto dedicarmi alla fotografia, cosa che già faccio ma che vorrei imparare a sfruttare meglio. E mi piacerebbe imparare a disegnare bene, nonostante non abbia particolari velleità artistiche. Vorrei riuscire a ricreare solo con il tratto di penna un disegno che somigli tanto a una fotografia.
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