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Dopo 10 anni torna a Palermo e ci resta: l’educatrice di strada che cura "l’erba tinta"

La storia di una antropologa e pedagogista che vive le periferie per raggiungere e sostenere i giovani nelle loro realtà. Un'esperienza oggi racchiusa in un libro

Stefania Brusca
Giornalista
  • 21 gennaio 2022

Una vita dedicata alla ricerca, all’approfondimento e di lavoro sul campo tra l’ombra e la luce, esplorando la dialettica interna alle dinamiche umane sul filo sottile che separa buoni e cattivi, bene e male.

L’antropologa e pedagogista Martina Riina conosce bene questa dialettica, a volte stanca, tra le due dimensioni, opposte ma non scisse, due facce della stessa realtà.

Le ha conosciute meglio durante i suoi anni di formazione e studio in Spagna, quando si occupava di ricerche antropologiche ed etnografiche sui gitani e le ha guardate dritte negli occhi in Marocco, durante la cosiddetta “Primavera araba”, quando è scesa ancora più a fondo, occupandosi di adolescenti e giovani che vivevano a Casablanca, ma anche a Khouribga.

Dieci anni trascorsi fuori dalla sua città, Palermo, e poi il ritorno, stavolta per restare, o almeno così spera. «In realtà il mio ritorno è stato abbastanza casuale – racconta Martina Riina -. Ho partecipato a un bando per un progetto all’istituto Pedro Arrupe e ho vinto. Mi sembrava un miracolo poter fare ricerca nella mia città».
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Era il 2013 e Martina inizia a lavorare nella sua Palermo, entrando in contatto con diverse realtà sempre in periferia: Ciaculli, Brancaccio, Zen. Poi, sette anni fa, Sos Ballarò, realtà di cui fa parte, entra in contatto con l’associazione "Per Esempio", e da qui inizia il suo lavoro a Borgo Vecchio.

«Anche qui abbiamo attivato percorsi di cittadinanza attiva, in particolare di tipo educativo per i ragazzi del quartiere, sia giovani che migranti – aggiunge -. Ci siamo occupati di alcuni casi specifici segnalati dalla scuola, dove convivono giovani autoctoni e provenienti da altri Paesi, per dare un sostegno in più e fare da ponte tra la piazza, la strada e le istituzioni sul territorio».

Le condizioni in cui versa la scuola in tempo di pandemia sono sotto gli occhi di tutti, una realtà che diventa ancora più evidente quando alla riduzione degli spazi sociali e alla necessità di ricorrere alla Dad si sommano le difficoltà in cui versano oggi molte famiglie italiane.

«In pandemia il problema del rapporto con la scuola dei ragazzi che abbiamo seguito sono analoghi a quelli del resto del Paese – spiega Martina – se la pandemia ha un merito è stato proprio quello di sottolineare ancora di più le disuguaglianze. Tra chi ha avuto la connessione stabile e chi no, tra chi ha avuto la cameretta tutta per sé e chi ha dovuto condividerla con altri quattro fratelli, tra chi poteva permettersi di comprare le mascherine e chi no».

Il compito degli operatori è stato quindi quello di creare «una mediazione tra la scuola e le famiglie, per aiutarle durante il lockdown – dice – abbiamo distribuito tablet e device. E fatto da ponte, ascoltando le esigenze, le problematiche che c’erano, le paure e le perplessità, grazie anche allo sportello di ascolto con gli psicologi».

Insomma è nato uno «"spazio di distensione", come lo chiamavamo noi, dove potere affrontare i conflitti tra scuola e famiglie. Queste problematiche si sono verificate in tutti i quartieri, ci siamo confrontati con altre associazioni, anche dello Zen, di Ballarò, dello Sperone e del Cep. Bisogna dare una mano alla scuola, perché da sola non ce la fa».

L’urgenza sottolineata dalla pandemia impone secondo Martina Riina ancora di più a chi si occupa dell’ambito educativo, di non aspettare che le persone si facciano avanti, ma di raggiungerle sul territorio, negli spazi aggregativi che sono rimasti, uno su tutti: la piazza del quartiere.

Alcune realtà dentro Palermo sono più vicine alla vita quotidiana di un paesino, chiuso nei suoi confini delimitati dalla chiesa, il negozio di alimentari, il barbiere e, appunto, la piazza.

Il metodo sposato dagli operatori a Borgo Vecchio è quello dell’educativa di strada. «Un modo di stare nel quartiere e di strutturare percorsi educativi e di formazione non solo all’interno dei palazzi – spiega ancora Martina-. Occorre conoscere e calpestare i terreni della vita sociale dei ragazzi, soprattutto gli adolescenti: devi andarli a cercare, non esistono i giovani che non vogliono studiare, ma quelli che non hanno le stesse opportunità di altri».

I ragazzi che vivono in alcune periferie, secondo l’antropologa, hanno una marcia in più perché hanno strutturato «un valore intrinseco, quello di utilizzare la strada e il vicinato. Vivere lo spazio della piazza è un valore da difendere, significa anche conoscere le dinamiche di un quartiere per chi vuole aprire un centro educativo e connettere tutti gli ambiti, sia simbolici che reali».

Una realtà che fa da ponte tra le istituzioni e il territorio, ma che ora arranca: «Al momento siamo senza sede a Borgo Vecchio – spiega – abbiamo trovato fondi solo per un progetto educativo per giovani adolescenti. Spero che in futuro le istituzioni possano farsi carico di queste iniziative che integrano, senza sostituirlo, il lavoro che fa la scuola».

Dieci per Martina è un numero che si ripete. Dieci anni fuori dalla sua città, e poi dieci anni di esperienze dentro il quartiere Borgo Vecchio. Il suo impegno e quello di tutta l’equipe che in questi anni ha lavorato nel quartiere adesso è racchiuso nel suo libro “Erba Tinta”.

Un titolo che richiama ancora una volta quella doppia valenza, la divisione apparente tra buoni e cattivi, quel chiaroscuro della realtà che conosce e che continua ad esplorare con la stessa tenacia proprio dell’ "erba tinta", «si insinua tra le crepe di cemento delle strade, cresce nonostante tutto. E poi si sa, non muore mai».
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