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L'educazione impartita a suon di "cucchiara ri ligno": ma che ne sanno i giovani di oggi

Storia e "usanze" dell'oggetto incubo dell'infanzia di tanti bambini e adolescenti. Le origini del cucchiaio si perdono nella notte dei tempi

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 23 maggio 2022

Un vecchio proverbio cinese dice: “I guai ra pignata i sapi u cucchiaru ca l’arrimina”, ovvero che i guai della pentola li conosce il cucchiaio che mescola il suo contenuto. Proverbio cinese nel senso che questa cosa me la ripeteva sempre Totò, detto u cinisi, un signore che abitava vicino casa di nonna e che, insieme a questo, sosteneva che i guai “ru chucchiaro”, invece, li conosceva solo la sua generazione perché “nei tempi moderni cucchiai di legno non ne sanno fare più”.

«Quando ti arrivava un bello colpo di "cucchiara ri lignu" (cucchiaio di legno) di una volta, sì ca ti insegnavi l’educazione!» Ora Totò non c’è più. Magari qualcuno si è ricordato di questa sua fissazione e gli ha messo un cucchiaio di legno dentro la bara, o magari si è già reincarnato in un albero che un giorno verrà utilizzato per farci cucchiai di legno. Intanto sono passati un sacco di anni di scuola, Pippo Baudo è arrivato a 13 Festival di Saremo presentati, i poveri per imitare ai ricchi si sono messi a mangiare le ostriche, i ricchi per snobbare le cose da ricchi si sono a mangiare pasta con le sarde, il Palermo finalmente è salito in serie A ma ora di nuovo in serie c, e io a questa cosa del cucchiaio di legno ci ho continuato a pensare e ho scoperto che in fondo in fondo Totò u cinisi non aveva poi tutti questi torti.
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Le origini del cucchiaio si perdono nella notte dei tempi. Il letterato Marco Terenzio Varrone, che essendo vissuto tra il 116 a.C. e il 27 d.C. si è vissuto para para la nascita di Gesù, ci fa sapere che ai suoi tempi il cochleārium, cioè il cucchiaio, era il contenitore dove si mettevano le chiocciole: in pratica dove si mettevano i babbaluci. Passa un po’ di tempo e un altro poeta romano di nome Marco Valerio Marziale ci fa sapere che intanto questo nome (cochleārium) è stato appioppato a un altro oggetto di forma allungata e con la punta che serviva a cavare i molluschi dalle chiocciole: sempre per le babbaluci serviva.

Che io ricordi mia nonna, a meno che non si faceva di LSD e al posto mio vedeva una babbaluci, il cucchiaio di legno lo ha sempre usato per cafuddare colpi nelle spalle (e chi li ha scippati si ricorda il bruciore) quando si faceva una marachella, per non dire “si combinava una minchiata”.

Ai tempi di Roma antica l’educazione dei figli era affidata alle madri, e considerato che il cucchiaio era un contenitore, si potrebbe presumere che le madri quando prendevano i figli a colpi cucchiaio, li prendevano a colpi di contenitore. In realtà la questione era peggio di così, perché quando da bambini si faceva qualche fesseria lo strumento di punizione non era tanto il contenitore ma la frusta, che bella non doveva essere.

I greci, che hanno influenzato la Sicilia ancor più dei romani, quando si trattava di educazione erano rigorosi e non andavano per il sottile. Tuttavia non possiamo attribuire a loro le punizioni a colpi di cucchiaio di legno, perché loro per cafuddare usavano il sandalo che poi grazie al Dr. Scholl verrà soppiantato dal terribile zoccolo (tant’è che a Taranto al museo MarTa ci sta un vaso che raffigura Afrodite mentre cafudda un piccolo e pestifero Eros proprio col sandalo).

E della stessa idea dei greci, che lasciavano spesso i bambini scalzi d’inverno a dormire fuori per renderli più vigorosi, c’era nonna che, quando vedeva papà arrabbiarsi perché mi rotolavo sempre per terra, diceva: “Lassalo stare u picciriddo, si fa l’anticorpi”. Il cucchiaio di legno in fine assumerà la forma che conosciamo ora soltanto nel medioevo, quando si credeva che per ogni cretinata dovesse finire il mondo e la gente per morire con la pancia piena faceva sempre banchetti. Insomma, non è che erano tanto puliti sti banchetti.

Le forchette non c’erano, il coltello stava al centro per tagliare piatti come il cinghiale, si mangiava con le mani, la monnezza si buttava sotto il tavolo e c’era solo un bicchiere (coppa) per due o tre commensali, che oltre i sapori si scambiavano anche la saliva. Secolo dopo secolo, colpo dopo colpo, cafuddata dopo cafuddata, il cucchiaio di legno ha tirato su generazioni di figli scapestrati ed è arrivato fino a noi.

Su una cosa però aveva ragione Totò u cinisi, e cioè che non li fanno più come una volta: aveva intuito che il legno era diverso perché sicuramente struppiava di più e il segno rimaneva per un bel pezzo. Quello che invece non poteva sapere è che il legno era veramente diverso, e che il motivo per cui ai nostri nonni le cose riuscivano più buone è perché venivano fatti di faggio, ginepro o ciliegio, in modo che il legno potesse aromatizzare la pietanza in cottura (ecco perché di legno). Molto tempo dopo incontrai il figlio di Totò, provai a spiegargli tutte queste cose e ci rimase contento nel sapere che suo padre ci aveva visto giusto.

«Ora i fanno i cinisi sti chucchiari…», mi disse deluso, «quando gli do un colpo a mio figlio gli resta impresso “made in China”.
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