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Lottò per la sua libertà con tutte le forze: Maria Camilla Abbate, la monaca ribelle di Palermo

Costretta a prendere il velo in età già molto avanzata per quei tempi, visse il dramma delle monacazioni forzate e della legge del maggiorascato e iniziò una lotta contro l’ambiente claustrale

  • 10 novembre 2021

Una scena del filma Storia di una capinera di Zeffirelli

Invasata ed ossessa da malighi spiriti: quale infermità si have di giorno in giorno avanzatosi”. Queste parole sono citate negli atti di un processo di annullamento dei voti delle monacazioni, risalente al 1701, e sono riferite a suor Maria Camilla Abbate, conosciuta come la monaca ribelle del convento di San Placido.

Ma chi era suor Maria Camilla Abbate? E perché fu costretta a prendere il velo in età già molto avanzata per quei tempi?
Tra il XVII e XVIII secolo il dramma delle monacazioni forzate ha impresso un segno profondo e doloroso alle vicende di tante donne italiane. Il convento rappresentava per la società del tempo un luogo di disciplina e un mezzo di vigilanza sulla virtù muliebre. La clausura costituiva per le donne dell’epoca l’unica alternativa al matrimonio ed era uno strumento di riconoscimento e di collocazione sociale. In più, le famiglie facoltose vi trovavano una soluzione per l’eccedenza della loro prole femminile.
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Nelle casate nobiliari, infatti, il destino di ogni figlio era scritto fin dalla nascita: il primogenito maschio avrebbe ereditato l’intero patrimonio, per evitare spartizioni dannose per la ricchezza e la potenza della famiglia.

Questa era la legge del maggiorascato che escludeva tutti gli altri figli, sia maschi che femmine, dal diritto all’eredità. Gli uomini però avrebbero potuto scegliere tra il sacerdozio o la carriera militare, invece alle donne era riservata la sola prospettiva del monastero.

Esclusivamente la maggiore delle figlie femmine avrebbe avuto la possibilità di sposarsi, in quanto, le doti di monacato erano molto meno onerose per le famiglie.

Per questo motivo tutte le figlie minori dovevano necessariamente prendere i voti e non potevano esprimere il loro parere. Queste ragazze, fin da piccole, erano educate per accettare il destino che le attendeva. Vestivano in modo austero e rigoroso ed erano circondate da crocifissi e bambolotti di cera raffiguranti il bambino Gesù, all’interno degli ambienti in cui vivevano. Quando giungevano poi in monastero, molte di loro si adattavano e ricoprivano anche cariche importanti, altre, invece, soffrivano atrocemente perché sentivano la forzatura.

Tra queste, si annovera proprio la figura di suor Maria Camilla Abbate, che per il suo carattere battagliero, cominciò una lotta contro l’ambiente claustrale. Grazie alla sua tenacia, arrivò ad ottenere l’istituzione di un processo per l’annullamento dei voti.

Maria era una giovane palermitana appartenente ad una casata antica e illustre. Nell’ultimo decennio del XVII sec si trasferì a Catania, dove fu costretta a prendere i voti al monastero di san Placido. Grazie al dossier conservato presso l’Archivio Diocesano di Catania, è stato possibile ricostruire la vicenda di questa monaca, che nel 1701 fu protagonista di uno dei rari processi “Nullitatis professionis” dell’epoca.

Le autorità ecclesiastiche, di solito, erano restie a concedere l’istituzione di un procedimento di questo genere, per scoraggiare le altre monache a tentare una simile impresa.

Ma, la storia dell’Abbate, ha del particolare. Maria ricevette la notizia di dover prendere i voti nel corso del viaggio da Palermo a Catania, dove i genitori avevano deciso di trasferirsi. La ragazza reagì piangendo, spiegando che aveva difficoltà ad adattarsi ai rigori della Regola Benedettina. Mostrò fin da subito un’aperta ostilità nei riguardi della vita claustrale, così i genitori chiesero aiuto a parenti, amici e conoscenti, per rafforzare la strategia persuasiva e le pressioni psicologiche, quali lusinghe, minacce o sensi di colpa.

Queste pressioni fecero cedere Maria. Il fratello, don Stefano Abbate, ebbe un ruolo decisivo, perché lei nutriva per lui sentimenti di affetto e stima, ma anche molta soggezione. Il giorno della sua monacazione, fu ricordato come uno dei più terribili nella vita del monastero. Infatti, la ragazza, invece di presentarsi alla cerimonia, fuggì atterrita e si nascose. Il fratello, aiutato dalle altre suore, la cercò a lungo e quando la trovò, nonostante le supplice della giovane, la trascinò a forza sul luogo stabilito dove Maria continuava a piangere mentre faceva la sua professione.

Le imposero il nome di suor Maria Camilla e la ragazza fu poi coperta con un drappo nero che simboleggiava la sua definitiva morte al mondo. Inoltre, le campane suonavano a morto, la chiesa era semibuia e il giuramento senza vocazione, le generò terribili sensi di colpa. Tutto ciò provocò in lei un vero e proprio attacco di panico. Nei gironi successivi, appariva sempre più depressa, mostrava crisi nervose, piangeva e urlava.

Si ribellava alle regole e rifiutava di seguire gli ordini della giornata benedettina, non riconoscendo l’autorità dei superiori del monastero. Molti credevano che avesse problemi psicologici, ma lei rispondeva con lucidità che la colpa non era sua, ma di chi l’aveva forzata a prendere i voti.

L’interessata fece poi richiesta di un processo e le testimonianze sentite confermarono che fu monacata a forza. Maria ottenne così l’annullamento dei voti.
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