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“Elizabethtown”, volare con Claire

  • 14 novembre 2005

Elizabethtown
U.S.A., 2005
Di Cameron Crowe
Con Orlando Bloom, Kirsten Dunst, Susan Sarandon, Alec Baldwin, Bruce McGill, Judy Greer, Jessica Biel

Nel suo piccolo, il cinema ci racconta la vita e la morte di persone e cose, cercando di mettere in forma la realtà. Il cinema, al contrario della televisione, che mette la realtà in format ed è sempre più banale e noiosa del suo fratello maggiore, continua a piacerci perché nonostante tutto, è ancora il regno dell’intensità. Prendiamo ad esempio un film come “Elizabethtown”, presentato fuori concorso a Venezia, nel quale il regista Cameron Crowe sa giocare abilmente con le emozioni, regalandoci una delle commedie americane più cool degli ultimi anni, distillando gocce d’ironia grazie anche ad una sceneggiatura esemplare, con dialoghi scritti in punta di penna. Una commedia minimalista che sa affrontare tematiche, situazioni e psicologie universalmente riconoscibili. Per l’occasione l’attore Orlando Bloom abbandona i panni eroici che l’hanno reso celebre nella trilogia dell’Anello e in “Le crociate”, per interpretare il ruolo contemporaneo di Drew Baylor, disegnatore di scarpe, cosa che gli consente di esibire una recitazione carica di spiritose sfumature. Il film parte dal fallimento professionale del nostro uomo comune, licenziato dal suo capo Phil (un irresistibile cameo di Alec Baldwin) a causa di un modello di scarpe alate da lui improvvidamente ideato. L’insuccesso conduce Drew ad essere piantato dalla fidanzata arrivista Ellen (Jessica Biel), e a sprofondare nel depressivo tran-tran quotidiano, tragicamente rotto sia dalla sorella Heather (Judy Greer) che dalla madre Hollie (una meravigliosa Susan Sarandon) che gli annunciano la morte improvvisa del padre, incaricandolo di riportare la salma a casa.

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Così dall’Oregon, Drew si precipita nella natale Elizabethtown, cittadina del Kentucky, dove ad accoglierlo c’è un gruppo di familiari e amici. Unico conforto, durante il viaggio in aereo, l’incontro con Claire Colburn (una luminosa Kirsten Dunst), gentile assistente di volo, capace di dispensare pillole di ottimismo e buon senso. Per l’uomo, Elizabethtown è l’alveo provinciale dove è possibile fare i conti con la propria vita, dove recuperare in memoria il rapporto mancato col padre, dove riscoprire il quieto calore familiare, durante i preparativi del funerale (ma l’occasione della sepoltura si trasforma in una farsa con la bara che precipita nella tomba, in stile “Twin Peaks” di Lynch). Crowe sa abilmente dosare i cambi di tono e di atmosfere e lo fa con pudore e concretezza (un po’ come sapeva farlo Stanley Donen) regalandoci, tra le altre, una sequenza magica con la Sarandon che balla il tip-tap sulle note di “Moon River” (il tempo, per questa incantevole attrice, sembra davvero essersi fermato!). Asse centrale di questo film, dove si raccontano matrimoni e funerali celebrati contemporaneamente e dove si scopre al telefono la dimensione dei sentimenti, è il viaggio nella memoria, quello che fisicamente compie il nostro protagonista scortando le ceneri del padre durante il ritorno alla casa di Portland. Così scorgiamo certi paesaggi che fanno parte dell’immaginario made in Usa, negli ultimi, indimenticabili venti minuti di questo film. Luoghi come Memphis, la città di Elvis Presley, sede del Lorraine Motel dove è stato assassinato, nel 1968, Martin Luther King. E poi Eureka Springs, nell’Arkansas, con la cittadina di Beaver dove si erge il bellissimo ponte giallo costruito nel 1949, che dà sul fiume White. E ancora l’Oklahoma City National Memorial fino nel Nebraska, punto cruciale del viaggio di Drew, dove egli espleta il suo rituale funebre tra le lacrime.

Segnato da uno spettacolare tramonto senza retorica sul fiume Platte, il film si avvia alla chiusura del cerchio, un giro di vite commentato da una compilation di storici brani rock di cui vale la pena almeno citare lo struggente “My Father’s Gun” di Elton John o lo splendido “Come pick me up” di Ryan Adams. Vi consigliamo caldamente di procurarvi la colonna sonora farcita di brani memorabili grazie ad una selezione curata dallo stesso Cameron Crowe che, prima di darsi al cinema, è stato corrispondente di “Rolling Stone”, esperienza questa che ha ispirato l’altro bel suo film, “Quasi famosi”. Le musiche originali, inoltre, sono state composte dalla moglie del regista, Nancy Wilson che, insieme alla sorella Ann, fece parte di uno dei più rappresentativi complessi rock dei mitici anni settanta, le “Heart”. E in più, come cameo emblematico, sono presenti nel film il famoso cantautore rock e di folk blues Loudon Wainwright nella parte dello zio Dale e la grande cantante Patty Griffin in quella di un’amica di famiglia. A suon di musica, Crowe ci parla dell’idea della morte come estrema possibilità di rigenerazione esistenziale, con una tenerezza e un sarcasmo simili a quelli dispensati dal grande Blake Edwards in commedie memorabili come “S.O.B.” e “Così è la vita”. La ricerca di Drew è quella di molti antieroi del cinema moderno che la grande retorica americana ha esaltato: la parte oscura della nostra coscienza, la sola che può liberarci dal male di vivere, la sola che può farci amare, magari, una come l’assistente di volo Claire, ideale archetipo dei nostri desideri di purezza.

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