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"L'arrivo del Tripoli", Francesco Vinci scrittore outsider

  • 1 maggio 2006

Francesco Vinci è un distinto e maturo signore alla sua prima pubblicazione, tuttavia come precisato in quarta di copertina, il nostro autore avrebbe una notevolissima esperienza, avendo cominciato a scrivere a sedici anni. Messa da parte la elegante ironia che pervade il libro e lo stile di Vinci, bisogna riconoscere che il linguaggio e la tecnica narrativa espressi ne "L'arrivo del Tripoli" (Nuova Ipsa Editore, 183 pp 10 euro) sono da scrittore professionista. Il romanzo prende spunto dai fatti narrati nella corrispondenza tra il Governatore di Messina Domenico Piraino e il Marchese Della Rovere, Luogotenente generale delle province siciliane. Il periodo storico è uno di quelli critici; il 1861, a ridosso dell'unità e dello sbarco dei mille, un momento insomma di quelli in cui tutto può accadere e di fatto tutto accade. La promessa di distribuzione delle terre ai contadini, e la successiva enorme beffa a loro danno con la spartizione dei feudi tra nobili e nuovi borghesi, non di rado provocò in quegli anni sanguinose ribellioni e determinò situazioni di caos spesso utili a risolvere - secondo la più classica e antica delle maniere siciliane - fatti e vicende private per nulla in relazione con gli storici accadimenti di quegli anni.
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Vinci, con la meticolosità dello storico e l'abilità narrativa del romanziere navigato, inserisce in una cornice di questo genere le vicende umane e personali dei suoi personaggi: il notaio ricco, potente, avido e fedifrago che viene gabbato dalla moglie apparentemente remissiva, il delegato di polizia, ligio al dovere e stritolato dagli ingranaggi del sistema che egli stesso serve, il farmacista debole vittima della crudeltà umana nei confronti del diverso, il giovane contadino innamorato della "schiava" del notaio e che allo stesso renderà pan per focaccia, e così via dicendo.La narrazione dell’autore è particolarmente accurata, il linguaggio si mantiene sempre entro toni molto pacati pur avendo delle fluttuazioni a trecentosessanta gradi a seconda dei personaggi che via via si susseguono.

Chi narra viene fuori con prepotenza e autorevolezza in alcuni passaggi particolarmente felici, tra i quali ricordiamo il momento della sommossa, all'inizio della mattanza, quando una "chaloma" prende di sorpresa e rapisce il lettore: «A livanti spunta u suli a punenti li sblanduri…Issa e tiragli un pugno sopra l'occhio, a dare raggia, dolore e forza alla bestia arpionata. Un savutu àvutu per volare in capo allo scalmo e tonnaroto si curca da solo, sutta scuotendo colpi di coda fra tavole e tunnina morente in cerca d'acqua che non sia tinciuta a sangue. Voci e rumoriare di corpi sotto gli stivaluna chini d'acqua e di squame e di vermiglio e di carne e d'occhi e ciriveddi spaccati». La trama si dipana con lenta agilità verso la fine, sì tragica ma pervasa di quella drammatica ironia che sembra dover accompagnare tutti i fatti più salienti e importanti della nostra Isola, esemplare il finale: surreale e senza speranza.

Con l'autore abbiamo scambiato due parole. Qual è l’episodio storico che fa da sfondo alla trama del libro?
Un episodio minore etichettato dagli storici come “i fatti di Tusa”. Uno di quei moti spontanei e cruenti che si susseguirono in Sicilia a ridosso della nascita dello stato unitario, immediata conseguenza di promesse non mantenute (spartizione ai contadini delle terre) e di atti odiosi celermente imposti (leva obbligatoria). Insieme un’assenza e presenza dello Stato in grado di scatenare quelle che i funzionari statali dell’epoca nelle loro relazioni definivano “minoranze ardite”. Comune denominatore di tutti questi episodi incoerenti di rivolta fu l’estrema violenza e la ferocia dimostrate da questi “altri picciotti” che nel mio libro ho voluto raccontare ricorrendo all’etica ed alla musicalità concitata delle mattanze nelle tonnare; altro insieme di atti conclusivi e feroci in cui i pescatori si fanno guerrieri ed invasori per saccheggiare il mare in un bagno di sangue collettivo.

Dato l'argomento e il contesto storico è inevitabile il paragone con Andrea Camilleri. Cosa vi accomuna e cosa vi differenzia?
Ci unisce la comune radice siciliana e l’ironia con la quale quasi tutti i nostri personaggi guardano e giudicano i loro simili e le cose della vita. Ci divide tutto il resto, a cominciare dalla lingua. La sua appartiene ad un sud, se possibile, ancora più profondo e di matrice empedoclina, la mia è frutto in prevalenza del ricordo del siciliano ‘mmiscatu’ alla lingua, parlato negli anni cinquanta in una famiglia della piccola borghesia palermitana , volutamente arricchito da alcuni termini del dialetto tusano. Ma la maggiore diversità, almeno a mio giudizio, è nell’ambientazione. Il mio intento era di scrivere un romanzo corale senza un vero e proprio personaggio principale. Il paese con i suoi abitanti, le sue vie, le sue case, divise come nella montanelliana Fucecchio, tra Insuso e Ingiuso, le sue contrade, la sua marina non è più sfondo dell’azione ma diviene vero, unico e multiforme protagonista. Ognuno dei personaggi vorrebbe rappresentare una diversa faccia di questa realtà presa ad emblema dell’intera Sicilia di un tempo. Da questo punto di vista il fatto che gli avvenimenti si svolgano un secolo e mezzo indietro dovrebbe costituire garanzia sufficiente per affermare che oggi tutto è cambiato e che di quella Sicilia e di quella società non è rimasto più niente. O no? Gli argomenti trattati, infine, a parte l’espediente di una trama vagamente gialla, sono quelli che l’uomo si racconta e ama sentirsi raccontare sin dai tempi di Omero: le “corna”, con tutto ciò che ne consegue. Poi, c’è il mondo della mia infanzia e degli incontri fatti in quel tempo. Ma di più di non voglio dire.
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