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“The Eye 3”, autoparodia irriverente ma vuota

  • 31 luglio 2006

The Eye 3 – Infinity (The Eye 10)
Hong Kong / Thailandia, 2005
di Oxide e Danny Pang
con Bo-lin Chen, Yu Gu, Bongkoj Khongmalai, Isabella Leung, Ray MacDonald, Kate Yeung

In queste pagine si è detto ormai di tutto contro gli adattatori italiani, alla stregua dei carabinieri nelle barzellette. Ma che non sappiano neanche riconoscere i numeri è francamente troppo. Il titolo originale dell’ennesima fatica orrorrifica dei Pang è, infatti, “The Eye 10”, ed è così che il film è conosciuto in tutto il mondo (esiste anche la variante “The Eye Infinity”). Non in Italia però, dove evidentemente si è pensato di attenersi a una ferrea evidenza logica: i due fratelli non sono ancora arrivati al decimo episodio, bensì al terzo (sic).

Il numero dieci, in realtà, ha tutt’altro significato: nella tradizione thailandese sono proprio dieci i modi mediante i quali è possibile entrare in contatto con entità ultraterrene. Dieci sono anche le sottostorie di cui si compone il film, ognuna di esse non è altro che la messa in pratica dei rituali spiritisti thailandesi da parte dei ragazzi protagonisti (tre maschi e due femmine, un tailandese e quattro hongkonghesi, che durante una vacanza si cacciano nei guai non appena si mettono in testa di evocare le anime dei defunti). Ma quel dieci, così insolito in un titolo cinematografico, in opposizione al più convenzionale tre, serve anche a marcare una cesura con i precedenti capitoli della saga.

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Qui non solo non c’è più alcun legame tematico o strutturale con i primi due film (del resto non esisteva continuità neppure tra “The Eye” 1 e 2), ma neanche di tono: tanto, infatti, i due capostipiti sono degli asian horror tradizionali, cupi e rarefatti, quanto questo vira decisamente dalle parti della farsa e della comicità demenziale. La dicitura italiana è sibillina nell’insinuare una contiguità che non esiste tra le opere dei Pang e nello spacciare “Infinity” per il classico film dell’orrore per teenager in cerca di brividi estivi (mentre il trailer è spudoratamente ingannevole nell’eliminare ogni traccia di comico).

Niente di più falso, perché l’impostazione è tutt’altro che tradizionale (e in ciò risiede l’unico vero merito dell’operazione). Bisogna dare atto ai due fratelli di aver raggiunto un primato: quello di essere i primi registi a sbeffeggiarsi da soli realizzando un’autoparodia. Le trovate che funzionano meglio sono proprio quelle in cui si ammicca al proprio repertorio, come ad esempio quando nel testo sacro tailandese si citano le trame dei due film precedenti e i protagonisti sbottano interdetti: «Ho già sentito parlare di due casi del genere».

Il resto, purtroppo, ad eccezione di qualche gag ben costruita (la delirante gara a colpi di passi di danza tra un posseduto da uno spirito e un esperto di breakdance) è vuoto pneumatico, un misto di noia e volgarità (indemoniate linguacciute e sbrodolanti, scoregge usate per stonare gli spiriti maligni) che rivaleggia quasi con la serie di “Scary Movie”.

I difetti sono parecchi: spunto di partenza tenuissimo, sceneggiatura sfilacciata e sfibrata, che regge a fatica poco più di ottanta minuti di durata, montaggio asfittico che accosta incoerentemente e sgangheratamente i singoli episodi, alcuni poco più che abbozzi accantonati dopo pochi minuti. Ma più di tutto su “The Eye 10” pesa l’asettica vocazione commerciale. È chiaro come a questo punto ai Pang interessi ormai solamente lo sfruttamento di un marchio e come ambiscano a confezionare per una platea internazionale (e soprattutto panasiatica: da qui il coinvolgimento della Thailandia, una delle cinematografie emergenti dell’estremo oriente) un blockbuster cool e leccatino, con ragazzotti piacioni ed effetti digitali all’ultimo grido.

Dei registi che quattro anni fa, all’origine della saga, venivano salutati come i campioni di un nuovo genere cinematografico si è persa ogni traccia. Anche l’ultima fatica, “Re-cycle”, presentata allo scorso Festival di Cannes, pare essere un fiacco e insopportabile ripescaggio delle solite atmosfere alla “Ringu” (un “riciclaggio”, appunto). Come scrive Giona A. Nazzaro su “Nocturno”, «ormai con i Pang si sa: se li conosci li eviti».

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