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"Sicilian Ghost Story": una fiaba triste per raccontare l'orrore di una società confusa

Una fiaba triste che affascina e turba: è "Sicilian Ghost Story", film di Grassadonia e Piazza che ha aperto la "Semaine de la Critique": la recensione

  • 25 maggio 2017

Una fiaba triste, terribilmente triste, che affascina, turba e rapisce oltre lo sguardo anche l'anima dello spettatore, questo è "Sicilian Ghost Story", il bel film che ha aperto la "Semaine de la Critique" al "Festival di Cannes", secondo lungometraggio dei due registi palermitani Fabio Grassadonia e Antonio Piazza.

Dopo il bellissimo e pluripremiato "Salvo", suggestivo film del 2013, i due registi raccontano di un'orribile vicenda di mafia consumatasi nel palermitano, quella del rapimento nel 1993, il 23 novembre a soli 12 anni, di Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, pentito e collaboratore di giustizia.

Un rapimento conclusosi tragicamente dopo 779 giorni, con l'uccisione del ragazzo per strangolamento e quindi con lo scioglimento del suo corpo nell'acido, secondo il più crudele e spietato stile mafioso. Era una "ferita aperta", come la definiscono gli stessi registi, una storia che andava raccontata e così è stato, secondo il loro stile ineguagliabile, asciutto e poetico, essenziale e magico.
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La storia d'amore tra lo sfortunato Giuseppe (interpretato da Gaetano Fernandez del quartiere Zisa di Palermo) e la sua compagna di classe Luna (Julia Jedlikowska, polacca palermitana) segna il ritmo della tetra vicenda dove sin dalle prime scene (un cane famelico insegue i due protagonisti) è una violenza ancestrale, quasi endemica di questa terra siciliana tanto splendida quanto dura, quella che si alterna con la bellezza della purezza.

La purezza dei volti dei due adolescenti, la purezza dell'animo di Luna che la porta a non cedere alla paura e all'omertà vigenti quando si rende conto che Giuseppe è stato rapito dai mafiosi, la purezza della speranza, una speranza che, nonostante tutto, nel racconto sembra pur esserci. Nonostante tutto quell'orrore preso in prestito dalla fiabe e mostrato senza veli ma anzi in tutta la sua orrida verità.

Perchè l'orrore non conosce vie di mezzo e soprattutto non deve essere dimenticato. Con pochissimi dialoghi e una strepitosa fotografia fra splendidi boschi e squallidi nascondigli, il film è una dura condanna a tutta una collettività di omertosi che fa della paura e della viltà l'unico modello di vita.

«Il figlio dell'infame non ci torna più a scuola»: queste parole dette a Luna da un compagno, riferendosi a Giuseppe, sono l'emblema di una società marcia, dove oltre all'orrore c'è ben poco altro.

Una società confusa, quale è l'odierna con le sue innumerevoli contraddizioni, ha l'obbligo morale di mandare messaggi chiari, di ricordare che non ci si può abituare all'orrore, mai. E questo è quello che hanno fatto in maniera eccelsa i due registi.
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