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A Palermo siamo gente di taverna dal Quattrocento: storie di (antichi) bar in città

Alcune erano mezzi bordelli e altre circoli letterari: dove si trovavano, come erano e cosa accedeva nelle taverne più frequentate di Palermo secolo dopo secolo

  • 5 agosto 2019

Il bar Marocco si trova di fronte la Cattedrale

Il termine "taverna", spesso usato in maniera dispregiativa, racconta in realtà di un’antica istituzione che radunava persone di diversi ceti sociali e che ha resistito nel tempo al cambiamento degli usi e costumi nei secoli.

Le taverne erano frequentate da aristocratici e plebei, prelati, artigiani, giudici, letterati, filosofi, fannulloni che volevano mangiar bene e trascorrere qualche ora divertendosi e, ancora oggi come allora, si trovano nei quartieri popolari.

Le taverne palermitane hanno una storia molto antica: le prime notizie risalgono al 1434, anno in cui il Pretore ed i Giurati di Palermo disciplinarono l’ubicazione e la gestione delle bettole della città. In questo documento si accenna a qualche "taberna antichissima" (ciò fa supporre che già da anni esercitassero la loro funzione), agli antichi strumenti di vendita ed alla loro dislocazione.

Le taverne più frequentate si trovavano nell’antico Borgo di Santa Lucia (odierna via Francesco Crispi), in prossimità del porto. I primi osti della città furono i commercianti che provenivano dalla Lombardia. Dal Seicento in poi, le taverne divennero centro di piacere e di facili costumi.
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La più famosa delle taverne era quella "delli Casciara" (Cassari), che sorgeva nel quartiere Loggia o Castellammare, gestita dal lombardo Gian Maria Bassanelli. I "Casciari" erano gli antichi costruttori di cassette di legno costruivano anche scale a pioli, remi per le barche o pile (per lavare i panni) ed altri generi di falegnameria.

Il Bassanelli era nato nel 1740 in un piccolo paese sul lago di Como, giunse a Palermo nel 1762 per seguire le orme del cugino Andrea che come altri lombardi si era trasferito a Palermo ed era diventato ricco esercitando il mestiere di oste. Iniziò come garzone di osteria e dopo la morte del cugino divenne proprietario.

Grazie a lui, questa taverna non fu soltanto luogo in cui cibarsi e bere qualche buon bicchiere di vino ma anche centro di cultura. Tra gli scaffali, infatti, c’erano libri che racchiudevano trattati letterari.

Lui stesso era un letterato ed interveniva nelle dispute filosofiche e religiose dei clienti. Amava il prossimo ed ospitava barboni e bambini poveri non facendoli pagare. Questa taverna fu ricordata nel poema di Giovanni Meli "Fata galante".

Gestì la taverna sino alla sua morte, che avvenne il 29 agosto 1787: un gran numero di persone parteciparono ai solenni funerali che si tennero nella chiesa di San Giacomo alla Marina.

Un’altra taverna celebre fu quella della "Ze’ Sciaveria" (zia Saveria), ubicata nella località marinara denominata Romagnolo.

Oltre alla brezza marina ed alla bellezza del panorama locale il locale era noto perché la Ze’ Sciaveria aveva allestito padiglioni separati da tende, sia per non mischiare i componenti di diversa classe sociale, sia quanti avevano incontri amorosi.

Altre taverne, ricordate da Giuseppe Pitrè nella sua "Vita di Palermo cento e più anni fa" passarono alla storia: la taverna della Pasciuta, quella della borgata Sette Cannoli (oggi Musica d’Orfeo) della Za’ Feliciuzza (che diede il nome all’omonimo rione), della Za’ Olivuzza (nell’attuale Corso Finocchiaro Aprile), quella della Perciata nei pressi di Ballarò aveva due porte per permettere a chi doveva di fuggire), quella di Sbannuta (contrada Bandita), quella di Bravascu e tante altre.

Un’altra taverna nota fu quella della Contrada di Pallavicino. Un proverbio ancora in voga recita: "Pari ‘a taverna di Pallavicinu, unni ‘na vota manca l’acqua e ‘navota manca ‘u vinu" ("Sembra di essere nella taverna di Pallavicino dove una volta manca l’acqua, una volta manca il vino").

Dall’Ottocento in poi, nelle nuove zone d’espansione le taverne furono sostituite dai Caffè che erano frequentati soltanto da una elìte ristretta.

Ancora oggi, le taverne che si trovano nei quartieri popolari dell’Albergheria, Capo, Kalsa, Ballarò, Borgo Vecchio, continuano a mantenere le caratteristiche originarie: ci si riunisce per bere un bicchiere di vino (oggi anche la birra), si consuma qualche tipica pietanza locale ma soprattutto si fa l’antichissimo gioco del <tocco> che spesso genera risse.

Anche i giovani li frequentano anche se non amano dire: "Ci vediamo alla taverna" (leggi qua, ti piacerà) perciò si riuniscono nei pub. La taverna o pub, rimane un centro di aggregazione dove ci si incontra, discute e si beve.

Da sempre le taverne hanno avuto la nomea che i frequentatori siano oziosi e perditempo. Ciò indusse il poeta Giovanni Meli ad apostrofare il cliente abituale delle taverne come un "testa sbintata" (testa sventata, sconsiderato) che anziché lavorare "avìa pigghiatu a via di l’acitu" ("aveva preso la via dell’aceto") e commentando la sua pessima condizione psico/fisica lo rimproverò dicendo: "Scutta pri quannu jisti a la taverna" ("paga per quando sei andato alla taverna").
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