LE STORIE DI IERI

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Un’inedita memoria del 9 maggio 1943

  • 15 maggio 2006

Le bombe che nel luglio del ’43 caddero su Roma, “come neve” nei versi di Francesco De Gregori, qui erano state meno poeticamente le “bombe a strafottere” che per un amico sopravvissuto furono il diluvio di ferro e fuoco del 9 maggio precedente. Quello che procurò a Palermo la medaglia d’oro di “città mutilata”. E che è ricordo di tempi disperati per chi infine ci ha dato una inedita memoria di quel giorno e di quelli successivi. Perché Vincenzino Cacioppo, che a dieci anni era apprendista falegname, quella domenica di maggio aveva accompagnato di buon’ora il “principale” fin sui tetti della carpenteria, in via Lascaris. Per aiutarlo a mettere a posto le tegole sparpagliate dappertutto dalle onde d’urto degli spezzoni precedenti.

E là erano rimasti entrambi finché un piccolo aereo che s’era alzato dal vicino aeroporto di Boccadifalco non passò sopra di loro lasciandosi dietro centinaia di foglietti colorati. Così, quasi per gioco, il ragazzino ne acchiappò uno al volo e lo porse con un sorriso al maestro. Ma lo colpì subito l’aspetto allarmato di quest’ultimo che gli disse: “Vatinni a casa, Viciuzzu, perchè oggi succederanno cose brutte”. Erano i volantini dei quali non tennero conto quelli che furono massacrati dalle bombe. Compresi i palermitani che la stessa mattina, davanti a Palazzo Riso, erano stati costretti a festeggiare la giornata dell’impero che non c’era più. Quanto a Cacioppo, egli ricorda d’essere arrivato appena in tempo nel portone di casa prima che si scatenasse l’inferno intorno all’edificio che s’affacciava sulla depressione di Danisinni.

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“Quattrocento andavano e quattrocento arrivavano”. Ce li ha ricordati così gli stormi dei liberators che, ad ondate interminabili, di bombe ne sganciarono quattromila in poche ore. Allucinante preludio ad esperienze che segnarono più da presso il piccolo falegname. Purtroppo, al “principale” signor Bellavia non fu concesso di tornare in fabbrica. Morì all’ospedale della Rocca dove l’avevano trasportato con un carrettino. Fu così che l’indomani, dopo aver recuperato la gabbanella quasi nuova e qualche attrezzo, Vincenzo lasciò le macerie della falegnameria per imbattersi subito dopo nell’amico Paluzzu, rimasto anche lui apprendista senza “mastru”. Un incontro infausto. Perché non sapendo dove passare la mattinata entrambi decisero di recarsi al Capo. Nell’irriconoscibile quartiere degli scarparelli dove le vittime non si contarono. Ma fu davanti alla vicina chiesa dell’Angelo Custode che un picciuttazzu, mai visto prima, li indusse ad andare a San Saverio. “A vedere i morti” che nell’ospedale dell’Albergheria erano stati portati dai soccorritori.

E in quello scempio i ragazzini scorsero un maestro che avevano conosciuto. Bianco di polvere, stecchito che pareva di marmo, con la gabbanella ancora addosso. Particolare che impressionò molto Vincenzo. Perché, fino all’entrata in città degli americani, quella vittima gli suggerì le ingenue precauzioni che prese tutte le volte che la sirena delle bombe lo trovò al lavoro. Ce lo confermò con un malinconico sorriso, mentre prima s’era fatto serio nel ricordare la fine del suo fragile compagno di strada. Un bambino che non riuscì ad accettare tutto quell’orrore. Colto da una crisi epilettica, quella stessa sera lo portarono al manicomio di via Pindemonte. Dal quale uscì avvolto in un lenzuolo. Ucciso dal terrore. “Mortu ri scantu”, secondo Vincenzo che ci ha permesso di usare il suo vero cognome e che parla ancora il dialetto di un tempo. Lui invece - convinto di poter evitare a suo modo la fine del maestro sepolto col soprabito impolverato - la gabbanella non mancò mai di togliersela e di buttarla via le altre volte che dovette scappare verso un ricovero. Scaramanzia infantile che portò comunque bene a Vincenzo che abita nel quartiere di chi scrive. Talvolta si fa sentire al citofono ma di rado accetta di salire in casa. Se ne scusa dicendo d’aver chiamato solo per ascoltare la voce d’un amico.

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