C’era una volta la friggitoria palermitana: il tempio del gusto rischia di scomparire
La friggitoria è un'istituzione tipica palermitana e racconta l’anima più autentica della città e che sembra quasi scomparsa in città, ma qualcuna ancora resiste
"Don Mariano Alessi", la nuova grande friggitoria
“Concluse la passeggiata in una friggitoria di via Papireto che aveva in mostra più specialità di quelle che si era immaginate e fece l’errore di farsi guidare dagli occhi e dalla fame invece che dalla ragione”. Carlo Barbieri, Il marchio sulle labbra. Sembra che siano quasi scomparse: soppiantate da locali alla moda dove la tradizione lascia il posto all’innovazione, oppure scalzate da cibi stranieri come hamburger giganteschi, kebab, sushi, ramen e pokè. Qualcuna resiste ancora solo nei quartieri di periferia, dove può contare su clienti fidelizzati.
Parliamo di una istituzione tipica palermitana, la friggitoria, piccolo tempio del gusto popolare, che racconta l’anima più autentica della città: nera di fumo, odorante di olio stantio che sfrigola rumorosamente nella grande padella, con i cibi disposti coreograficamente in grandi vassoi, su di uno strato di carta scura, che deve assorbire l’olio in eccesso. Alle pareti mattonelle bianche lucide, sul soffitto un’enorme cappa di metallo per aspirare i fumi della frittura.
Un locale minuscolo, senza pretese, dove il friggitore passa l'intera giornata, servendo cibo di strada a prezzi popolari, ad avventori di passaggio: operai, facchini, studenti, impiegati in pausa. I clienti ordinano e consumano in piedi. In un angolo è posto l’immancabile altarino casalingo, realizzato con le fotografie dei genitori o dei nonni defunti assurti a numi protettori, oppure è appeso un grande quadro sbiadito dal tempo di San Giuseppe col Bambino. Innanzi a loro per devozione è posto un cero di plastica, con una lampadina a imitazione di una fiammella.
In friggitoria si potevano acquistare fino agli anni ’90 del secolo scorso: arancine rigorosamente alla carne a volte cosparse di zucchero; panelle dorate (frittelle di farina di ceci che si fanno solo in Sicilia), fritte al momento e servite ancora calde; crocchè di patate aromatizzate alla mentuccia.
Ma anche fettine di melanzane fritte da aggiungere al panino farcito con le panelle o a quello con le crocchè e melanzane a quaglia (fritte tutte intere nell'olio, realizzate con 8 tagli, per simulare le ali e il corpo di un uccelletto, mentre il gambo ricorda un ipotetico collo senza testa); le rascature (frittelle preparate con i residui di impasto di panelle e crocchè, raschiati dai pentoloni).
L’odore della frittura si spande per strade e vicoli: “Parfum de Palermo” scrive Carlo Barbieri in “L’autista” e poi così spiega: “Alcuni odori ti rimangono nel cuore. Ad esempio quello delle friggitorie, posto dove puoi farti a qualsiasi ora un pane con le panelle o con le crocchette di patate, ma badate bene che qui si chiamano crocchè, o meglio ancora cazzilli. A Palermo la scena della distinta signora che chiede un panino con cazzilli è comune e non scandalizza nessuno. O dove puoi assaggiare le arancine”.
Afferma Fatima Giallombardo in merito alla cucina di strada (pubblica e di solito affidata agli uomini quindi opposta alla cucina domestica, gestita dalle donne): «Si propone come una sorta di grande buffet, dove si può estrinsecare la libera, sregolata scelta del boccone più gradito” e inoltre si mangia in piedi, “con le mani, accompagnando spesso i cibi con vino o birra e con ostentata noncuranza degli aspetti di pulizia».
I sensi che vengono stimolati sono “l’olfatto e la vista”. Bisogna inoltre sottolineare che “Il fumo, l’odore, le caratteristiche espositive dei cibi” svolgono un ruolo fondamentale nell’attirare il cliente. Alla fine dell’Ottocento esistevano già le friggitorie: a farcene un’accurata descrizione è lo studioso Giuseppe Pitrè.
In una piccola pubblicazione del 1893, dedicata alle feste e alle tradizioni natalizie (immancabili sono in quei giorni di lauti banchetti le fritture sulla tavola dei palermitani), il Pitrè firmandosi con lo pseudonimo di Hernandez De Moreno, scrive un intero capitoletto sulla figura del “friggitore”.
Ecco cosa scrive: «Veramente si chiama sfinciaru, ma chi vul parlare in punta di forchetta lo dice “friggitore” - poi prosegue-. E si chiama sfinciaru perchè nella sua bottega si friggono sfinci, paste molli fermentate, che si friggono e si mangiano anche sparse di zucchero, o di miele, o di vin cotto. Ma il friggitore non si rimane alle sole antonomastiche sfinci.
Egli vende tanta altra roba fritta, da riempire la più lunga lista dei cucinieri…panelli, forme di poltiglia di ceci; vrocculi, cacocciuli, sardi a la pastetta (broccoli, carciofi, sardelle avvolte in pastella fermentata); sardi a beccaficu (sardelle ripiene da una concia composta di pan grattugiato e torrefatto, zucchero, cannella, passolina, pignolo e altro, unite una all’altra e intramezzate da foglie d’alloro), testi, teste di capretti divise per lo mezzo; e poi pesci svariati e diversi, dal capitone all’anguilla di rito, alle sarde e al baccalà.
Che confusione! Che ressa innanzi a queste botteghe!”. Il friggitore intonava un tempo un’antica cantilena per invogliare i clienti ad acquistare: «Friuta d'ora!» (È stata fritta adesso!). Racconta sempre il Pitrè la storia di un certo zio Martino, un friggitore “in fama di danaroso”, che tutti gli anni, alla fine di marzo, organizzava a sue spese una grande festa popolare alla Fieravecchia (oggi Piazza Rivoluzione), con musica, luminarie e spari di mortaretti.
A quella festa accorrevano moltissime persone e lo zio Martino, che aveva perso la moglie, i figli, i parenti…tutti deceduti nel mese di marzo, si vendicava affacciandosi al balcone di casa, addobbato con fiori e arazzi, facendo pubblicamente un atto volgare (liberava la vescica): credeva di fare un’onta a Marzo jettatore e un augurio a sè stesso!
Una fotografia di Aurelio Monteverde, datata dall’Autore 7 aprile 1907, raffigura già ai tempi, in piazza Caracciolo alla Vucciria la “Nuova grande Friggitoria” di Don Mariano Alessi. Nel 1914 le friggitorie a Palermo erano ufficialmente 12 e 4 erano gestite da parenti: c’erano i Di Blasi di Via Castro e i Di Blasi di Via Sant’Agostino; i Pace di Via Candelai e i Pace di Via Pannieri.
C’erano friggitorie e friggitorie ovviamente, non tutte potevano contare sugli stessi introiti: nel 1924 il friggitore Nuccio Camillo dichiarava 9000 lire di reddito, Pace Pietro 8000 lire, Di Blasi Giovanni 4000 lire, Mancino Antonino 3600 lire; ma di contro c’era chi doveva accontentarsi di molto meno come Bonomo Vincenzo con 1200 lire, Florio Antonino con 1400, Di Bartolo Filippo con 1500, Schiavo Paolo con 1600 lire.
(All’epoca, per farsi un’idea: l’architetto Ernesto Basile guadagnava 18000 lire, Biondo Salvatore tipografo 19.000 lire, Bruno Giuseppe dolciere 32000 lire). Negli anni ’50 del secolo scorso le friggitorie erano tante e hanno permesso a molti padri di famiglia di poter vivere onestamente del proprio lavoro e hanno sfamato diverse generazioni di palermitani.
Le panelle erano uno dei cibi più economici: ad esempio nel poverissimo quartiere di Cortile Cascino rappresentavano spesso il pasto principale. Per ricordare qualcuna delle più celebri friggitorie basti pensare a Don Raffaele alla Vucciria, in via coltellieri; a Don Tanino Rizzo a Piazza Venezia, alle spalle del teatro Biondo; e poi alla friggitoria Alongi alla Zisa negli anni ’50; alla friggitoria in via Beati Paoli angolo piazza San Cosmo, al mercato del Capo; all’ antica friggitoria della stazione, della famiglia Cordova, sorta nel 1947.
Nella nota piazza Kalsa, esiste ancora la friggitoria Chiluzzo, ormai una specie di istituzione: fondata dalla famiglia Biondo nel 1943. Le piccole friggitorie di Palermo aperte ancora oggi sono baluardi di una tradizione antica che continua a resistere: auguriamo a loro lunga vita!
Parliamo di una istituzione tipica palermitana, la friggitoria, piccolo tempio del gusto popolare, che racconta l’anima più autentica della città: nera di fumo, odorante di olio stantio che sfrigola rumorosamente nella grande padella, con i cibi disposti coreograficamente in grandi vassoi, su di uno strato di carta scura, che deve assorbire l’olio in eccesso. Alle pareti mattonelle bianche lucide, sul soffitto un’enorme cappa di metallo per aspirare i fumi della frittura.
Un locale minuscolo, senza pretese, dove il friggitore passa l'intera giornata, servendo cibo di strada a prezzi popolari, ad avventori di passaggio: operai, facchini, studenti, impiegati in pausa. I clienti ordinano e consumano in piedi. In un angolo è posto l’immancabile altarino casalingo, realizzato con le fotografie dei genitori o dei nonni defunti assurti a numi protettori, oppure è appeso un grande quadro sbiadito dal tempo di San Giuseppe col Bambino. Innanzi a loro per devozione è posto un cero di plastica, con una lampadina a imitazione di una fiammella.
In friggitoria si potevano acquistare fino agli anni ’90 del secolo scorso: arancine rigorosamente alla carne a volte cosparse di zucchero; panelle dorate (frittelle di farina di ceci che si fanno solo in Sicilia), fritte al momento e servite ancora calde; crocchè di patate aromatizzate alla mentuccia.
Ma anche fettine di melanzane fritte da aggiungere al panino farcito con le panelle o a quello con le crocchè e melanzane a quaglia (fritte tutte intere nell'olio, realizzate con 8 tagli, per simulare le ali e il corpo di un uccelletto, mentre il gambo ricorda un ipotetico collo senza testa); le rascature (frittelle preparate con i residui di impasto di panelle e crocchè, raschiati dai pentoloni).
L’odore della frittura si spande per strade e vicoli: “Parfum de Palermo” scrive Carlo Barbieri in “L’autista” e poi così spiega: “Alcuni odori ti rimangono nel cuore. Ad esempio quello delle friggitorie, posto dove puoi farti a qualsiasi ora un pane con le panelle o con le crocchette di patate, ma badate bene che qui si chiamano crocchè, o meglio ancora cazzilli. A Palermo la scena della distinta signora che chiede un panino con cazzilli è comune e non scandalizza nessuno. O dove puoi assaggiare le arancine”.
Afferma Fatima Giallombardo in merito alla cucina di strada (pubblica e di solito affidata agli uomini quindi opposta alla cucina domestica, gestita dalle donne): «Si propone come una sorta di grande buffet, dove si può estrinsecare la libera, sregolata scelta del boccone più gradito” e inoltre si mangia in piedi, “con le mani, accompagnando spesso i cibi con vino o birra e con ostentata noncuranza degli aspetti di pulizia».
I sensi che vengono stimolati sono “l’olfatto e la vista”. Bisogna inoltre sottolineare che “Il fumo, l’odore, le caratteristiche espositive dei cibi” svolgono un ruolo fondamentale nell’attirare il cliente. Alla fine dell’Ottocento esistevano già le friggitorie: a farcene un’accurata descrizione è lo studioso Giuseppe Pitrè.
In una piccola pubblicazione del 1893, dedicata alle feste e alle tradizioni natalizie (immancabili sono in quei giorni di lauti banchetti le fritture sulla tavola dei palermitani), il Pitrè firmandosi con lo pseudonimo di Hernandez De Moreno, scrive un intero capitoletto sulla figura del “friggitore”.
Ecco cosa scrive: «Veramente si chiama sfinciaru, ma chi vul parlare in punta di forchetta lo dice “friggitore” - poi prosegue-. E si chiama sfinciaru perchè nella sua bottega si friggono sfinci, paste molli fermentate, che si friggono e si mangiano anche sparse di zucchero, o di miele, o di vin cotto. Ma il friggitore non si rimane alle sole antonomastiche sfinci.
Egli vende tanta altra roba fritta, da riempire la più lunga lista dei cucinieri…panelli, forme di poltiglia di ceci; vrocculi, cacocciuli, sardi a la pastetta (broccoli, carciofi, sardelle avvolte in pastella fermentata); sardi a beccaficu (sardelle ripiene da una concia composta di pan grattugiato e torrefatto, zucchero, cannella, passolina, pignolo e altro, unite una all’altra e intramezzate da foglie d’alloro), testi, teste di capretti divise per lo mezzo; e poi pesci svariati e diversi, dal capitone all’anguilla di rito, alle sarde e al baccalà.
Che confusione! Che ressa innanzi a queste botteghe!”. Il friggitore intonava un tempo un’antica cantilena per invogliare i clienti ad acquistare: «Friuta d'ora!» (È stata fritta adesso!). Racconta sempre il Pitrè la storia di un certo zio Martino, un friggitore “in fama di danaroso”, che tutti gli anni, alla fine di marzo, organizzava a sue spese una grande festa popolare alla Fieravecchia (oggi Piazza Rivoluzione), con musica, luminarie e spari di mortaretti.
A quella festa accorrevano moltissime persone e lo zio Martino, che aveva perso la moglie, i figli, i parenti…tutti deceduti nel mese di marzo, si vendicava affacciandosi al balcone di casa, addobbato con fiori e arazzi, facendo pubblicamente un atto volgare (liberava la vescica): credeva di fare un’onta a Marzo jettatore e un augurio a sè stesso!
Una fotografia di Aurelio Monteverde, datata dall’Autore 7 aprile 1907, raffigura già ai tempi, in piazza Caracciolo alla Vucciria la “Nuova grande Friggitoria” di Don Mariano Alessi. Nel 1914 le friggitorie a Palermo erano ufficialmente 12 e 4 erano gestite da parenti: c’erano i Di Blasi di Via Castro e i Di Blasi di Via Sant’Agostino; i Pace di Via Candelai e i Pace di Via Pannieri.
C’erano friggitorie e friggitorie ovviamente, non tutte potevano contare sugli stessi introiti: nel 1924 il friggitore Nuccio Camillo dichiarava 9000 lire di reddito, Pace Pietro 8000 lire, Di Blasi Giovanni 4000 lire, Mancino Antonino 3600 lire; ma di contro c’era chi doveva accontentarsi di molto meno come Bonomo Vincenzo con 1200 lire, Florio Antonino con 1400, Di Bartolo Filippo con 1500, Schiavo Paolo con 1600 lire.
(All’epoca, per farsi un’idea: l’architetto Ernesto Basile guadagnava 18000 lire, Biondo Salvatore tipografo 19.000 lire, Bruno Giuseppe dolciere 32000 lire). Negli anni ’50 del secolo scorso le friggitorie erano tante e hanno permesso a molti padri di famiglia di poter vivere onestamente del proprio lavoro e hanno sfamato diverse generazioni di palermitani.
Le panelle erano uno dei cibi più economici: ad esempio nel poverissimo quartiere di Cortile Cascino rappresentavano spesso il pasto principale. Per ricordare qualcuna delle più celebri friggitorie basti pensare a Don Raffaele alla Vucciria, in via coltellieri; a Don Tanino Rizzo a Piazza Venezia, alle spalle del teatro Biondo; e poi alla friggitoria Alongi alla Zisa negli anni ’50; alla friggitoria in via Beati Paoli angolo piazza San Cosmo, al mercato del Capo; all’ antica friggitoria della stazione, della famiglia Cordova, sorta nel 1947.
Nella nota piazza Kalsa, esiste ancora la friggitoria Chiluzzo, ormai una specie di istituzione: fondata dalla famiglia Biondo nel 1943. Le piccole friggitorie di Palermo aperte ancora oggi sono baluardi di una tradizione antica che continua a resistere: auguriamo a loro lunga vita!
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